Pujia Antonio

Antonio Pujia [Polia (Vibo Valentia), 11 giugno 1929 – Buenos Aires, 26 maggio 2018]

Nacque da Vittorio e da Maria Vallone, una famiglia molto modesta, a Poliolo frazione del comune di Polia, a quel tempo in provincia di Catanzaro. Fin da piccolo mostrò particolare attenzione per le forme plasmando i suoi giocattoli con la creta che trovava sulle rive di un ruscello vicino il paese.
All’età di otto anni, nel maggio 1937, insieme alla madre e alla sorella maggiore, Carmela, emigrò in Argentina dove li attendeva il padre che li aveva preceduti qualche anno prima, quando Antonio aveva appena due anni.
Il ragazzo arrivò a Buenos Aires e frequentò le scuole elementari con una certa difficoltà per la lingua e perché, inoltre, soffriva di miopia e nessuno se n’era accorto: fu il maestro di quarta elementare che, osservandolo, comprese il problema segnalandolo alla madre per una visita oculistica; da allora Antonio portò gli occhiali.
In prima media, perdurando la sua difficoltà con la lingua, cominciò a esprimersi disegnando elementi della realtà circostante che lo colpivano per la novità rappresentata; disegnò, tra l’altro, un venditore di giornali e la sua professoressa fece circolare il disegno in tutta la scuola.
Arrivato il momento di finire le medie, viste le sue attitudini e il suo talento, gli fu consigliato di iscriversi all’istituto di Belle Arti. Affascinato anche dal nome della scuola, Antonio comunicò ai genitori la sua scelta: voleva fare lo scultore. Ma il padre che avrebbe voluto farne un contabile, si oppose decisamente. La madre, però, riuscì a fargli fare l’esame di ammissione alla scuola Manuel Belgrano. Sebbene intimidito perché non si era preparato per affrontare la prova, ottenne la promozione e dal 1943 al 1954 frequentò scuole d’arte con regolarità e dedizione, facendosi notare per le sue non comuni doti artistiche: Nel 1946 si diplomò in Disegno presso la Scuola di Belle Arti Manuel Belgrano, nel 1950 ricevette il titolo di Professore Nazionale di Scultura presso la Scuola Nazionale di Belle Arti di Prilidiano Pueyrredón e, infine, nel 1954 quello Professore di Scultura, presso il l’Istituto Nazionale di Belle Arti Ernesto de la Cárcova. Si è formato con artisti-docenti del calibro di Alberto Lagos, Troiano Troiani, Alfredo Bigatti, José Fioravanti e Rogelio Yrurtia, con i quali lavorò anche come aiutante nei loro atelier (anni dopo avrebbe battezzato con i loro nomi i saloni della sua scuola-atelier). Terminati gli studi, nel suo studio nei pressi del quartiere Floresta, a ritmi intensi si diede allora alla creazione artistica, ma si dedicò anche all’insegnamento come professore titolare delle cattedre di Scultura nelle scuole di Pueyrredon e di Belgrano oltre che, per più di 30 anni, nella sua scuola-atelier.
Nel 1956, partecipò e vinse un concorso indetto da Héctor Basaldúa, direttore tecnico del Teatro Colón, per organizzare un laboratorio di scultura scenica al teatro, di cui fu direttore fino al 1970, anno in cui si dimise per dedicarsi completamente alla creazione scultorea. Proprio in questi anni, assistendo spesso alle lezioni dei ballerini, fu sedotto da musica e ballo, due dei suoi temi favoriti. Fece amicizia con Jorge Neglia e Norma Fontela, prime ballerini del Balletto Stabile del teatro, e nel 1966 completò il busto di Norma Fontela oggi in bella mostra nel foyer del teatro.
Nel 1959 vinse il suo primo premio importante: il Gran Premio del Salone Municipale Manuel Belgrano e l’anno dopo gli fu assegnato il Gran Premio di onore del Salone Nazionale di Arti Plastiche. Proseguendo nell’impegno per l’arte, tra i tanti altri riconoscimenti, nel 1961 vinse la Biennale Alberto Lagos e nel 1964 il Gran Premio del Fondo Nazionale delle Arti “Augusto Palanza”: erano allora i premi più importanti del Paese. L’anno dopo, 1965, spinto anche da precedenti successi, tenne la sua prima personale alla Galleria Witcomb, una delle più importanti della capitale argentina, sede di mostre dei più rinomati artisti nazionali e stranieri. Presentò molti lavori fusi nel bronzo e registrò un successo di pubblico e di vendite.
Senza tralasciare il suo impegno al Colón, incoraggiato dall’ottima accoglienza delle sue opere, avviò una produzione ininterrotta, e mostrando un grande impegno sociale, addolorato dalle immagini pubblicate sui giornali, preparò la mostra “Biafra?” «esposizione scarna della distruzione dell’uomo per opera dell’uomo», inaugurata il 23 luglio 1971 nella Galleria Esmeralda ed elogiata dai visitatori e dalla stampa specializzata.
Il suo nome travalicò i confini argentini e nel 1974 la Galleria Seber Art di Sidney lo invitò a fare una mostra in Australia. Espose alcune sculture sul Biafra e su altri temi. Ed ebbe un notevole successo. Che continuò con le altre esposizioni, come quella del 1975 nella hall del Teatro Municipale San Martìn di Buenos Aires, dove «il pubblico si trovò si fronte a una delle serie sculturali più intense che si fossero mai viste fino al momento».
Nel 1977 espose una serie di sculture nella Galleria “Imagen” su tempi diversi: piante, donne nude, erotismo, coppie di amanti, e un ritratto di sua moglie incinta.
Nel 1976 per circa un anno lavorò in Spagna, all’Escorial. Ritornato a Buenos Aires. fino al 1979 elaborò la tematica relativa agli anni di piombo con l’imposizione della dittatura in Argentina.
Dal 1971, creò diverse medaglie artistiche per commemorare eventi privati e nazionali, nonché per premiare personaggi illustri. Per commemorare la seconda fondazione di Buenos Aires, nel 1980 fu incaricato di realizzare una medaglia da coniare in Italia per essere distribuita in omaggio con la rivista “Siete Días”. E con il ritorno della democrazia, produsse su richiesta una medaglia commemorativa per l’assunzione della presidenza di Raúl Ricardo Alfonsín. 
Nel 1982 gli fu assegnato il Diploma di Merito dei Premi Konex.
Nel 1983 si registrò un suo avvicinamento all’opera di Amedeo Modigliani a partire dall’olio “Le grand nu”.
Continuando nelle sue esposizioni, dopo due mostre nel 2000 (al Museo Eduardo Sivori e alla Galleria Principium), nel 2003 decise di rendere omaggio a uno dei suoi maestri, lo scultore realista Rogelio Yrurtia. Selezionò diverse opere che coprivano il periodo 1960-2000, e allestì la mostra nella Casa Museo Rogelio Irurtia di Buenos Aires che il maestro aveva donato al Paese con gli altri suoi averi.
A partire dalla metà del 2004 sospese i corsi e la sua partecipazione in esposizioni collettive o fiere artistiche, e avviò un Omaggio alla donna al quale dedicò tutto il suo sforzo creativo, realizzando una serie di opere con diversi metalli fusi, mescolando il bronzo con il sistema di cera persa, il marmo di Carrara, il marmo Belga, l’ebano con vari bagni d’argento e d’oro.
Nel dicembre del 2006, comunque, allestì una retrospettiva nella Galleria Mundo Nuevo.
Fu anche l’ideatore dei Premi Podestá, una statuetta da assegnare ogni anno alla carriera degli attori membri dell’Associazione argentina degli attori.
Alcune delle opere del suo grande percorso di scultore sono in esposizione permanente in diversi luoghi pubblici di Buenos Aires. Tra questi la Colonna della Vita, in Plaza Vélez Sarsfield a Floresta, e un busto di Hugo del Carril nella stazione San Pedrito della linea A della metropolitana, nel quartiere di Flores.
Scultore inquieto, oltre a ricevere diversi premi e riconoscimenti per il suo lavoro con il quale ha tra l’altro denunciato gli orrori della carestia e della guerra, nel 1982 è stato anche nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e dieci anni dopo Cittadino Illustre della Città Autonoma di Buenos Aires.
Dal primo matrimonio ebbe un figlio, Vittorio, un musicista che vive in Francia. Nel 1960 si unì per amore a Susana Nicolai (psicologa e ceramista) che è stata sua compagna di una vita, dalla quale ebbe altri due figli, Lino (cineasta) e Sandro (fotografo).
Morì a 88 anni e ai suoi funerali erano presenti numerosi artisti suoi amici, tra cui Ponciano Cárdenas e Leo Vinci. Le sue ceneri riposano nel giardino della sua bottega, accanto a un fico che «dava sempre frutti». (Francesca Raimondi) © ICSAIC 2023 – 03 

Nota bibliografica

  • Marta Lynch, Pujia, cuarenta obras únicas, in «Argentina: 3» (Buenos Aires), 23 settembre 1968;
  • León Benarós, Lirismo expresionista de un escultor argentino, in «Revista Norte», 1974, pp. 41-44;
  • Norberto Coppola, Raúl Urtizberea, (a cura di), Pujia Antonio: Escultor, in «Argentina: 17» (Buenos Aires), a. 2, n.17, 16 aprile 1990, p. 74;
  • Rodolfo Braceli, Este Escultor es una Joya, in «Argentina: 17» (Buenos Aires), a. 2, n.17,16 aprile 1990;
  • Aldo Galli, Pujia: amores y dolores, in «La Nación», 10 settembre 2000;
  • Aldo Galli, Pujía antológico, in «La Nación», 30 marzo 2003;
  • Victoria Reale, La muestra: el retrato de un padre escultor, in «Revista Ñ Digital», 23 marzo 2010;
  • Leda Daverio, De la cera al metal. Entrevista a Antonio Pujía, in «Hilvanadas en Zig Zag», 30 dicembre 2011;
  • Juan Pomponio, Antonio Pujia: la imperiosa necesidad de registrar lo hermoso, in «Letralia» XVII 283, 6 maggio 2013;
  • María Paula Zacharías, Antonio Pujía, in «mariapaulazacharias.com», 7 settembre 2013; 
  • Floresta, de fiesta, in «Página/12». 24 maggio 2014.
  • Sumaremos una escultura de Hugo del Carril a la Línea A, www.buenosaires.gob.ar. 5 novembre 2014;
  • Universidad Nacional de las Artes, Charla con el Maestro Antonio Pujía. www.una.edu.ar.
  • Fundación Konex, Antonio Pujía. Premio Konex 1982: Escultura Figurativa, Archiviato dall’originale il 19 novembre 2015;
  • Cecilia Martínez, Muere el escultor Antonio Pujía, in «La Nación», 27 maggio 2018;
  • Jefatura de Gabinete de la Ciudad de Buenos Aires, Derechos Humanos y Pluralismo Cultural. Observatorio de Colectividades: Italiana. «Aportes a la cultura porteña – Artistas destacados». Archiviato dall’originale il 23 settembre 2015.

Migliori, Felice

Felice Migliori [Bisignano (Cosenza), 1841 – Cosenza, 29 aprile 1915]

Fece i primi studi in Calabria e poi si trasferì a Napoli dove frequentò il “Real collegio medico cerusico”. Già a 18 anni vinse il concorso per la cattedra di Filosofia nei Licei. A soli 20 anni, nel 1861, si laureò in filosofia e fu ammesso agli esami “per grazia speciale” non avendo ancora raggiunto l’età prescritta. Vinse poi il concorso per medico militare e prestò servizio presso l’Ospedale di Torino. Fu, in quegli anni, chiamato a far parte della convenzione di Ginevra per la fondazione della Croce Rossa Internazionale. Giornalista e scrittore fu redattore del Giornale di Medicina che si pubblicava a Torino e insegnò Medicina Operatoria alla scuola militare. Tomato a Cosenza col grado di Capitano, fondò “La Gazzetta medica delle Calabrie” dove collaborarono molti insigni personaggi dell’epoca. Fondò insieme al prof. Carlo Maria L’Occaso di Castrovillari un Istituto vaccino-terapico assolutamente all’avanguardia se si pensa che allora si era appena alle prime sperimentazioni della vaccinazione Jenneriana. Diresse il lazzaretto a Rocca Imperiale impedendo l’espandersi del colera in tutta la Provincia. Studiò i problemi igienici, specie quelli della bonifica interna e dell’approvvigionamento dell’acqua potabile.
Prese parte alle lotte risorgimentali e nel 1960 fu con Garibaldi nell’assedio di Capua.
Nel 1873 vinse per concorso il posto di “Medico direttore dell’Ospedale Civile e Maternità di Cosenza” e da allora si dedicò con tutte le sue forze all’Istituzione. Impiantò, a sue spese, un laboratorio scientifico nel quale raccolse quanto di più preciso e di più pratico vi era a quel primo fiorire della sperimentazione. Fu cosi che gli fu possibile, primo tra tutti i clinici d’Italia, eseguire gli esperimenti sulla “Linfa di Koch”, o tubercolina, e condurre studi e ricerche scientifiche di ogni genere tra i quali i lavori sulla meningite, sulla peste, sulle simbiosi batteriche, sulle streptococcie etc. Dedicandosi per oltre 40 anni all’Ospedale, lo fece ristrutturare dotandolo di sala operatoria (un letto operatorio fu donato all’Ospedale dall’insigne dott. Cosco), e di altri servizi all’epoca sicuramente all’avanguardia. Il progetto per migliorare l’Ospedale gli fece conquistare la “medaglia d’Oro” all’esposizione di Palermo e quella di “bronzo” a Roma. Si preoccupò del problema dell’assistenza infermieristica che all’epoca
era inesistente e riuscì a portare a Cosenza le Suore “Figlie di S. Anna” con il cui Ordine stipulò una precisa convenzione firmata Migliori-Gattorno.
Istituì inoltre un Osservatorio di Meteorologia e Geodinamica che portò molto prestigio all’ Ospedale. Dal Governo ebbe vari incarichi e delicate missioni che esegui sempre con grande puntualità tanto da
meritare lodi e onori: fu presidente della locale sezione della Croce Rossa nonché socio fondatore; medico consulente e oculista delle Ferrovie Mediterranee e di quelle dello Stato; consigliere scolastico;
membro del G.P. di beneficenza; medico provinciale.
Intelletto poliedrico, scrittore forbito, parlatore elegante, di varia e complessa cultura, egli era però soprattutto Chirurgo! Nella commemorazione fatta dal prof. Ludovico Docimo si legge: «…come chirurgo fu esperto ed ardito operatore, quasi un pioniere, un precursore dei tempi moderni. Il suo campo di azione non si limitava solo alla pura chirurgia generale, ma si allargava in ogni campo della medicina operatoria. Fu tra i primi a eseguire interventi arditi e difficili di laparotomia, quando ancora l’addome era per il chirurgo un campo chiuso, difficile e pericoloso».
Di carattere mite, affabile, paziente, aveva anche i suoi hobbies quale quello di ritagliare su carta vestiti e modelli precorrendo gli attuali “stilisti”. Questa sua immagine contrasta con quella di una denuncia che nei suoi confronti fece il giornalista Luigi Caputo che lo accusò «sevizie e maltrattamenti» nei confronti della figlia Teresina, utilizzando «i mezzi più abusivi di correzione» perché la ragazza era innamorata del giovane e squattrinato cronista.
Quando mori, a ogni modo, la sua amata consorte si chiuse nel suo studio per una settimana e ne imbalsamò il corpo; questo rimase esposto preso il cimitero di Cosenza, coperto da uno spesso vetro, fino al 1950, quando per legge comunale dovette essere inumato.
Ormai avanti negli anni don Felice amava fare il pomeriggio una passeggiata in calesse dalle parti dell’attuale Corso Mazzini che allora era aperta campagna; quando passava sotto l’Ospedale chiamava la Madre Superiora delle Suore e si faceva mettere al corrente del buon andamento dell Ospedale. Pochi giorni prima della sua morte e precisamente il 19 aprile del 1915, i Cosentini gli dedicarono, ancora in vita, un busto in bronzo che fu posto su una stele nell’atrio dell’Ospedale Civile. Vi fu una grande partecipazione di popolo e di autorità. Esattamente dieci giorni dopo mori: aveva 74 anni. 
Il “busto”, trasportato al nuovo Ospedale, fu poi fuso per ricavarne materiale bellico: «Sulla stele, vuota e dolorante, noi non vedemmo più la cara effige, essa però era rimasta fissa nella nostra mente e nel
nostro cuore!» (Docimo).
In sua memoria sulla facciata della sua abitazione di Bisignano fu fatta incidere la seguente epigrafe: «Da questa casa sulle ali audaci del suo intelletto possente Felice Migliori eminente nella scienza e nell’arte della vita volò verso orizzonti più vasti che di sua fulgida luce si irradiarono il popolo di Bisignano orgoglioso della gloria di Lui ad imperitura ricordanza solennemente depone XXIV maggio MCMXV».
Dopo diversi anni dalla sua scomparsa, ebbe un ulteriore riconoscimento: il Comune di Cosenza infatti ha intestato a suo nome la strada antistante l’attuale Ospedale. Una Unità operativa complessa di Chirurgia dell’Ospedale dell’Annunziata è stata a lui intestata. (Antonio Petrassi, con aggiornamenti redazionali) © ICSAIC 2023 – 03 

Nota bibliografica

  • Franco Rombolà, Storia della chirurgia in Calabria, V-XX secolo, Santelli, Mendicino (CS) 1989;
  • Alfonso Barone, Felice Migliori. Una vita consacrata alla medicina (1841-1915), in «Calabria Letteraria», n. 11-3, 2001, pp. 109-111;
  • Antonio Petrassi, L’Ospedale dell’Annunziata e i grandi medici calabresi, Editoriale Bios, Castrolibero 2005, pp. 91-94;
  • Francesco Gallo, I grandi medici calabresi da Alcmeone a Dulbecco, s.n. Padova 2013, p. 156;

Matteo Dalena, Il segreto di Felice Migliori, in «Antichi delitti», 23 novembre 2005, http://www.antichidelitti.it/2015/11/23/il-segreto-di-felice-migliori/

Messinetti, Silvio

Silvio Messinetti [Cerzeto (Cosenza), 4 gennaio 1902 – Crotone, 16 ottobre 1996]

Nacque in una famiglia di origine arbëreshë, da David, medico condotto di Cerzeto e poeta, e da Emilia Tagliaferri.
Studiò a Cosenza dove conseguì la maturità classica al Liceo Telesio. Quindi si iscrisse in Medicina e Chirurgia all’Università di Roma “La Sapienza” dove si laureò con il prof. Pietro Valdoni ottenendo il massimo dei voti
Esercitò inizialmente la professione a Cerzeto, poi si trasferì a Crotone, dove nel 1930 sposò Carmela Maria Madia, appartenente a una ricca famiglia della borghesia agraria. Dal matrimonio nacquero tre figli che diventeranno affermati professionisti: Davide, professore ordinario di Diritto civile a Firenze, Giuseppe (Peppino), noto giornalista di testate calabresi, e Rosanna, critica letteraria e professoressa di Letteratura Italiana.
Nello stesso anno 1930 fu assunto come assistente medico presso l’ospedale civile della città pitagorica, ma in seguito preferì la libera professione lavorando soprattutto con le Casse mutue dell’Industria. È ricordato come il medico dei poveri.
L’itinerario politico di Silvio Messinetti è stato contorto. Aderì al Movimento Giovanile Socialista fin dal 1919. Frequentando il Liceo Telesio di Cosenza, infatti, unitamente a un gruppo di giovani intellettuali (tra cui Francesco Vaccaro, Francesco Spezzano, Filippo Martire, Florindo De Luca, Angelo Corrado) ebbe Pietro Mancini come professore di filosofia e dal suo insegnamento nacque il suo interesse per il socialismo. Nel 1925 fu arrestato per la sua attività politica. Trasferitosi a Crotone nel 1930, due anni dopo si iscrisse al Pnf. Nel 1939, quindi, entrò in politica come amministratore locale e fino al 1943 fu vice-podestà con Pietro Giunti e Nicola Morace podestà. Il 19 agosto 1943 – era Centurione medico della Milizia Artiglieria Contraerea, in servizio presso l’87° Gruppo Batterie della 21ª Legione – godendo di stima e fiducia, con decreto del giorno prima firmato dal Prefetto di Catanzaro Stefano Bussetti, assunse la carica di commissario prefettizio della città jonica.
Alla caduta del fascismo, diventò da un giorno all’altro comunista – esempio di trasformismo che riguardò diversi elementi che divennero dirigenti importanti del partito di Togliatti – e si iscrisse subito al Pci nel quale fece una splendida carriera politica durata quarant’anni circa.
Fu eletto sindaco di Crotone nel 1946 e confermato nel 1952 e nel 1956. Nel 1958 dovette rinunciare alla carica per incompatibilità con quella di parlamentare (dopo le dimissioni da sindaco è diventato assessore comunale).
Candidato nella lista del Fronte Popolare per la prima legislatura repubblicana, infatti, già 1948 era stato eletto deputato nel collegio di Catanzaro-Cosenza-Reggio Calabria facendo parte della Commissione Lavori pubblici.
Rieletto nel 1953 (seconda Legislatura), fece parte della Commissione parlamentare Igiene e Sanità pubblica. Quell’anno fu protagonista di un episodio che gli costò la sospensione per cinque giorni: il 13 gennaio, durante le discussioni alla Camera della cosiddetta “legge truffa” (la nuova legge elettorale), in una votazione non ritenuta regolare dai social-comunisti, in un generale tumulto, rovesciò stizzito le urne (due cofani) «ripetendo lo storico gesto di Prampolini».
Fu confermato alla Camera nel 1958 e il 28 aprile 1963 venne ancora rieletto. Dal 12 luglio 1963 al 4 giugno 1968, ha fatto parte, della Commissione parlamentare Igiene e Sanità Pubblica, dal 1964 come vice presidente. Quello della Sanità è stato un settore al quale ha prestato grande attenzione non solo in Parlamento: infatti, è stato anche membro dell’Anicp, l’Associazione nazionale degli istituti di cura privati. Tutta questa attività gli valse la Medaglia d’oro al merito della Sanità pubblica, di cui è stato insignito Il primo dicembre del 1982. Nei suoi incarichi parlamentari, in diverse legislature è stato anche membro delle Commissioni speciali per l’esame di disegni di legge relativi a “Provvidenze per le zone colpite dalle recenti alluvioni in Calabria”, “Provvedimenti straordinari per la Calabria”, “Provvedimenti per il Mezzogiorno”.
Il suo rapporto con la città è stato sempre stretto e intenso. Da deputato, il 19 aprile del 1951, quando era pure sindaco, presentò una proposta di legge, per la demolizione delle baracche dei rioni Carmine e Marinella, da sostituire con case popolari, ma soprattutto si batté con particolare dedizione per la costruzione di un moderno ospedale.
Gli interessi di Messinetti che miravano alla modernizzazione della città, comunque, non sono stati esclusivamente politico-amministrativi. Per venti anni, dal 1945 al 1965, è stato anche presidente del Crotone Calcio che nel 1953 sfiorò la promozione in serie B. Per sua iniziativa, poi, tra il 1952 e il 1963 la città ha ospitato importanti eventi culturali, come il premio Crotone, un premio straordinario istituito il 4 aprile 1952 dall’amministrazione comunale: fu la “creatura” con la quale il sindaco puntò alla valorizzazione della città e del territorio e che per anni fece di Crotone un punto di riferimento importante della cultura nazionale, frequentato dal gotha della letteratura, della poesia, del cinema, da Alberto Moravia, a Pierpaolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti, Ernesto De Martino, Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Mario La Cava e altri ancora. Ma soprattutto riuscì a creare agli inizi degli anni Cinquanta un’attenzione positiva sulla città di cui parlava tutta l’Italia: la Settimana Incom del marzo 1950 dedicata ad alcune città meridionali, ad esempio, portò in tutti i cinema italiani le immagini del porto crotonese. Anche per tutto queste iniziative l’Amministrazione socialcomunista che governò Crotone sotto la sua guida fu considerata la più significativa delle esperienze simili in tutto il Mezzogiorno.
Come parlamentare, ovviamente, non si interessò soltanto di Crotone. Ha presentato 71 progetti di legge, 8 come primo firmatario. Tra questi ultimi le proposte, entrambe del 1948, per l’autonomia comunale di Cirò Marina (firmata anche dal democristiano Vittorio Pugliese) e di Botricello, e quella per l’istituzione della provincia di Crotone del 3 aprile 1957. In aula ha fatto 130 interventi.
Non più ricandidato dopo ben 4 legislature in Parlamento, si è allontanato dalla politica attiva, in seguito anche ad alcune polemiche e frizioni con il Partito Comunista dal quale si dimise «per tutelare la mia dignità di uomo e di militante», spiegò in una lettera al partito nella quale definì gli attacchi di cui era stato oggetto come «un volgare disegno da lungo tempo architettato nella vana speranza di distruggere un uomo circondato sempre dall’affetto, dalla benevolenza e dalla stima dei lavoratori di Crotone». Ai suoi fedeli elettori consigliò di votare per il Partito socialista unificato. In seguito condusse una vita molto ritirata.
È deceduto alla veneranda età di 94 anni. «Si conclude una vita esemplare di medico, amministratore, parlamentare, che ha scritto capitoli indimenticabili della storia della nostra regione», scrisse Giacomo Mancini, ex segretario nazionale del Psi, secondo cui Messinetti era «stato un uomo libero e coerente, forte e coraggioso, saggio e saldo nelle sue convinzioni. Un esempio per la sinistra e per la democrazia».
In suo ricordo, il 13 febbraio 2017, l’Amministrazione comunale di Crotone ha posto una placca commemorativa in piazza Duomo. Questa la dedica: «A Silvio Messinetti. / Medico dei poveri. / Sindaco amatissimo dal 1946 al 1957. Per venti anni deputato del popolo nella riconquistata democrazia. / Iniziò la lunga battaglia che portò alla elevazione di Crotone a Provincia. / Figura indimenticabile e prestigiosa, legata alla sua gente dell’amore degli ideali dell’emancipazione e della libertà, guidò la città verso la rinascita e la modernità. / Vive nella memoria dei crotonesi come esempio di dedizione e disinteresse personale di cui conservare e tramandare il ricordo».
Crotone gli ha intestato anche una via, tra Piazza Pitagora e Piazza Duomo. Porta il suo nome anche una sezione del Premio letterario Crotone. (Aldo Lamberti) © ICSAIC 2023 – 03 

Scritti

  • La rinascita di Crotone nel rapporto del suo sindaco, in «Rinascita», anno IX, n. 4, aprile 1952, p. 212;
  • L’amministrazione popolare di Crotone (1946-1952), s.n., s.l. 1952;
  • Relazione del sindaco on.le Silvio Messinetti, s.n., s.l. 1952;
  • L’ente Sila sotto accusa. Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella seduta del 13 maggio 1954, Tip. della Camera dei deputati, Roma 19?;
  • Schema di relazione sulla riforma sanitaria, con particolare riguardo alla nuova legge ospedaliera presentata in Parlamento dal P.C.I. (a cura di), Federazione comunista di Crotone, s. l. 19?;
  • I miliardi dei contribuenti per la rinascita della Calabria non per il riarmo e la guerra. Discorso alla Camera, S.A.M.E., Milano 195?.
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Nota archivistica

  • Archivio di Stato di Catanzaro, Gabinetto di Prefettura, b. 318, “Crotone”.

Nota bibliografica

  • Crotone: Mancini su morte Messinetti, in «Adnkronos», 17 ottobre 1996;
  • Si è dimesso dal PCI l’onorevole Messinetti, in «Corriere della Sera», 29 marzo 1968;
  • Giulio Grilletta, KR 40-43: cronache di guerra, Pellegrini, Cosenza 2003;

La città intitola l’ex piazza Vittoria a Messinetti, in «Il Crotonese», 20 febbraio 2007.

Gianniti, Francesco

Francesco Gianniti [Oriolo (Cosenza) 4 ottobre 1921 – 11 agosto 2017]

Nacque a Oriolo, piccolo centro dell’Alto Jonio cosentino, da Pasquale e da Maria Camerino. Frequentò le scuole elementari negli anni 1927-32 nel paese di nascita, e fece gli studi classici a Cosenza, nel Liceo-Ginnasio “Bernardino Telesio”, dove ebbe tra i suoi insegnanti il noto grecista Aristide Colonna e il sacerdote don Luigi Nicoletti, figura importante del movimento cattolico in Calabria, politico e giornalista.
Conseguì la maturità classica nel 1940 e nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Si laureò con il massimo dei voti e la lode nel 1945, con una tesi in Diritto Penale, discussa col prof. Filippo Grispigni; tema della tesi: La legittimità della resistenza agli atti arbitrari dell’Autorità. Nel 1947 conseguì l’abilitazione forense presso la Corte di Appello di Roma, dove iniziò a svolgere la sua attività professionale, esordendo come difensore in una causa penale davanti al Tribunale.
L’anno dopo entrò in Magistratura, da «incaricato di funzioni giudiziarie» presso la Pretura unificata di Roma. Dal 15 settembre 1948 al 15 ottobre 1950 esercitò le funzioni di pretore a Corigliano Calabro. L’esperienza giovanile di pretore a Corigliano rimarrà tra i suoi ricordi più belli fino a età avanzata; del resto, fu molto importante perché lo fece conoscere e apprezzare per le sue qualità umane e professionali, come dimostra l’attestato del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Rossano consegnatogli dal presidente, l’avvocato e senatore Giuseppe Lavia, nel quale si legge che «il Dott. Francesco Gianniti è magistrato di vivace ingegno, di alto equilibrio e di vasta e profonda cultura giuridica» e che «per l’elevatezza della sua cultura, per l’alacrità del suo lavoro e per l’integrità della sua vita privata, gode di profonda stima da parte di tutti gli avvocati del Circondario di Rossano, dai quali è considerato un magistrato particolarmente meritevole».
Durante la sua permanenza a Corigliano, si fece apprezzare anche per la sua profonda cultura, che andava oltre l’ambito strettamente giuridico. Dalle cronache dei giornali locali coriglianesi (Avanti, Corigliano! e Cor Bonum) apprendiamo che nel giugno del 1949, nella ricorrenza del Centenario della Repubblica Romana, nell’Aula Magna del Liceo Garopoli, Gianniti svolse una conferenza, molto apprezzata, sul tema: Indagine storica sulla Repubblica Romana del 1849.
Si sposò nel dicembre del 1952 con Caterina De Santis (detta Nella, sorella del noto archeologo- giornalista Tanino De Santis, fondatore e direttore della rivista Magna Graecia), dalla quale ebbe tre figli: Maria Giulia (1955), Daniela (1957) e Pasquale (1961), che seguirà le orme paterne (magistrato dal 1990, Giudice del Tribunale civile e penale in diverse città d’Italia e attualmente consigliere della Corte di Cassazione).
Da Corigliano, a seguito di domanda di trasferimento, passò al Tribunale di Bologna, dove svolse le funzioni di pretore dall’ottobre del 1950 al dicembre del 1951. Successivamente, sempre presso il Tribunale di Bologna, fu giudice istruttore penale, giudice del dibattimento penale, giudice della Corte d’Assise e infine, giudice del Tribunale civile.
Nel novembre 1950 iniziò anche la sua carriera accademica: fu nominato, infatti, assistente volontario di Diritto penale nell’Università di Bologna; nel 1961 conseguì l’abilitazione alla libera docenza in Diritto Penale; nel 1962, in seguito a un concorso nazionale superato, divenne assistente ordinario di Diritto penale nella stessa Università.
Dal 1° febbraio del 1963 lasciò, quindi, la Magistratura per seguire la carriera universitaria. Negli anni 1963-1966 fu professore incaricato di Diritto Penale; nel triennio accademico 1967-1970 professore incaricato di Istituzioni di Diritto Penale e Procedura Penale nella Facoltà di Scienze Politiche; infine, nel 1972, in seguito a un concorso nazionale, divenne professore aggregato di discipline penalistiche.  Dal novembre del 1971 al 31 ottobre 1991 fu titolare della cattedra di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo bolognese; in tale veste tenne numerosi corsi universitari nella stessa Università. 
Dal 1993 al 2005 fu Magistrato per il giudizio dell’azione di sindacato della Repubblica di San Marino.
Dal 1968 fu membro d’onore della Società di Diritto penale e criminologia di Buenos Ayres e nel 1977 divenne socio corrispondente dell’Accademia Cosentina.
Nel 1985, cessata l’attività forense, aprì a Bologna una scuola privata (denominata Centro Studi Indirizzo Magistratura Avvocatura) finalizzata a preparare i giovani laureati in giurisprudenza al concorso per la magistratura e agli esami per l’avvocatura.
Il 31 ottobre 1996 fu collocato a riposo come professore ordinario, ma continuò la sua attività didattica e scientifica, pubblicando numerosi altri scritti in diritto penale e in procedura penale. Renzo Orlandi, docente di Scienze giuridiche all’Università di Bologna, ricorda che, «oltre alla funzione giudiziaria e all’attività scientifica in accademia, Francesco Gianniti ha esercitato per anni anche l’attività forense, con esperienze significative in processi di rilievo anche nazionale». Agli inizi degli anni Settanta, infatti, assieme ad Alfredo De Marsico, difese il produttore cinematografico Alberto Grimaldi, processato in due distinti giudizi a Bologna per aver finanziato il film di Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi e il film di Pier Paolo Pasolini I racconti di Canterbury.
Lo stesso Orlandi, ricordando Gianniti scrive che la sua riflessione teorica «percorre convintamente i sentieri dell’interdisciplinarietà». Per Gianniti, in pratica, la sociologia, la psicologia, l’antropologia criminale devono trovare adeguato spazio nelle speculazioni del penalista, latu sensu inteso, perché non è sufficiente fermarsi al dato normativo, come pretendono i tecno-giuristi. Limitarsi al dato normativo vuol dire trascurare la parte più viva dell’esperienza penalistica. Per Gianniti deve prevalere il principio della prevenzione rispetto a quello della repressione, l’affermazione dei diritti dell’imputato di fronte agli arbitri dei pubblici poteri; il trattamento penitenziario deve essere finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato.
Morì al suo paese natale alla veneranda età di 96 anni (Franco Liguori) © ICSAIC 2023 – 03

Monografie di diritto e procedura penale

  • I reati della stessa indole, Giuffrè, Milano 1959;
  • L’oggetto materiale del reato, Giuffrè, Milano 1966;
  • Studi sulla corruzione del pubblico ufficiale, Giuffrè, Milano 1970;
  • Prospettive criminologiche e processo penale, Giuffrè, Milano 1977 (III ed. 1984);
  • Controversie in tema di giudizio direttissimo, Giuffrè, Milano 1979;
  • Introduzione allo studio interdisciplinare del processo penale, Giuffrè, Milano 1986
  • I rapporti tra processo civile e processo penale, Giuffrè, Milano 1988
  • Esame e tirocinio per magistratura e avvocatura, Giuffrè, Milano 1997;
  • Aspetti problematici del processo penale, Giappichelli, Torino 1997;
  • Guida all’esame di avvocato, Giuffrè, Milano 2006;
  • Sistema penale e problemi criminologici, con Pasquale Gianniti, Maggioli, Rimini 2007;
  • Guida al concorso per magistrato ordinario, Cedam, Padova 2008;
  • Criminalistica, Giuffrè, Milano 2011.

Scritti giuridici in collaborazione col figlio Pasquale

  • La rilevanza della “parte speciale” nel sistema del diritto penale, in «Critica penale», 2004, pp. 137-142;
  • L’esame della personalità del soggetto e specializzazione criminologica del giudice penale, in«Critica penale», 2005, pp. 9-22;
  • La rilevanza del metodo comparativo nello studio della parte generale, in «Critica penale», 2005, pp. 123-142;
  • La rilevanza del metodo comparativo nello studio della parte speciale, in «Critica penale», 2005, pp. 219-238;
  • Esame e tirocinio per magistratura e avvocatura, Giuffrè, Milano, 1997;
  • Guida all’esame di avvocato, Giuffrè, Milano, 2006;
  • Sistema penale e problemi criminologici, Maggioli, Rimini, 2007;
  • Guida al concorso per magistrato ordinario, Cedam, Padova, 2008;
  • Norme penali miste e omogeneità dei reati, in «Critica penale», 2010, pp. 31-54.

Nota bibliografica

  • Enrico Altavilla, Francesco Gianniti, I reati della stessa indole (recensione), in «Scuola Positiva», 1961, p. 401;
  • Antonio Rossi, Francesco Gianniti, l’oggetto materiale del reato (recensione), in «La Calabria giudiziaria», 1967, pp. 234-237;
  • Karl Siegert, Francesco Gianniti, Studi sulla corruzione del pubblico ufficiale (recensione),in «Scuola Positiva», 1971, pp. 477-478;
  • Giuseppe Guarneri, Francesco Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale(recensione), in «La giustizia penale», 1977, pp. 331-335.
  • Romano Ricciotti, Francesco Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale (recensione), in «Critica giudiziaria», 1977, pp. 167-172;
  • Romano Ricciotti, Francesco Gianniti. Prospettive criminologiche e processo penale(recensione), in «Critica penale», 2007, pp. 278-280;
  • Sergio Lorusso, Francesco Gianniti, Criminalistica (recensione), in «La Corte d’Assise», 2011, pp. 135-137;
  • Pasquale Vincenzo Molinari, Francesco Gianniti, Criminalistica (recensione), in «Gli oratori del giorno», 2011, p. 62-64.
  • Ernesto D’Ippolito, Francesco Gianniti, Criminalistica (recensione), in «Iniziativa», 2011, p. 4;
  • Gaetano De Amicis, Francesco Gianniti, Criminalistica (recensione), in «Diritto Penale Contemporaneo» (online), 2012;
  • Giuliano Vassalli, Francesco Gianniti, Sistema penale e problemi criminologici (commento), in Antonio Benvenuto, Francesco Gianniti. Una vita in tre toghe, Editrice Libreria Aurora, Corigliano Calabria 2013, p. 218;
  • Antonio Benvenuto, Francesco Gianniti. Una vita in tre toghe, cit.;
  • Renzo Orlandi, Ricordo di Francesco Gianniti, in «Giustizia penale», p. I, cc. 289-290, 2017;
  • Renzo Orlandi, Ricordo di Francesco Gianniti, in «ASPP», 1 dicembre 2017, http://www.studiosiprocessopenale.it/ricordo-di-francesco-gianniti.html.

Gaudio, Raffaele

Raffaele Gaudio [Longobardi (Cosenza), 1877 – Amantea (Cosenza), 4 marzo 1932]

Nobile figura di educatore, filosofo idealista e letterato insigne, teologo, ex sacerdote, conferenziere e socio onorario dell’Accademia cosentina. Uomo di vasta e profonda cultura. Ricco di umanità, altruismo e onestà. Così viene raccontato Raffaele Gaudio che vide la luce a Longobardi nel 1877.
Dopo la laurea in Lettere classiche e Filosofia con un’interessante tesi dal titolo Estetica e Pedagogia, che diede alle stampe nel 1912, dal 1905 al 1913 insegnò materie letterarie nei ginnasi di Castrovillari e Catanzaro. Innamorato della “Rinascenza filosofica”, che è italiana e meridionale, nel 1908 volle commemorare Bernardino Telesio nel quarto centenario della nascita. Dal 1914 al 1928, passò a insegnare Pedagogia e Filosofia morale nell’Istituto Magistrale di Cosenza e dal 1929 in poi Storia, Filosofia economicae Diritto nel liceo-ginnasio Telesio di Cosenza.
Il suo pensiero filosofico si può definire un neocristianesimo di matrice idealistica. Egli cercò di fondereinsieme l’attualismo gentiliano con il cattolicesimo, ma tale prospettiva non si conciliava con la teologia dogmatica del tempo in cui egli visse, per cui, venuto in contrasto con la gerarchia ecclesiastica cosentina, fu costretto ad abbandonare l’abito talare, che indossò soltanto prima di morire.
Studiò con attenzione la poesia e il dialetto calabrese, approfondendo autori come Vincenzo Padula e Michele Pane. Valutò criticamente l’opera di Ippolito Nievo e quella di Alfredo Oriani, considerato scrittore di gusto decadente.
Si occupò tuttavia, ricorda Vincenzo Segreti (1994), «di temi di varia umanità che spaziano dalla letteratura classica la cultura dell’ottocento, dalla storia regionale, alle composizioni in lingua latina. In questi studi il letterato di Longobardi confermò la non comune preparazione, la vastità degli interessi, ma anche l’appartenenza ideologica al fascismo e la divisione all’attualismo gentiliano. Aldilà di ogni considerazione, egli ebbe l’indubbio merito, fondendo il metodo storicistico con quello idealistico, di avere portato nuovi e originali contributi alla ricerca».
Fin da giovane lesse e approfondì lo studio su Dante, tanto da scrivere un’opera, rimasta incompleta, intitolata Gli errori e i limiti degli antichi commentatori della Divina Commedia. Annotazioni critiche sul poema.
In ogni caso è merito suo avere rilevato varie analogie, ovviamente con certe differenze, fra il De gloria paradisi dell’abate Gioacchino da Fiore e la Divina Commedia e avere supposto che il poemetto fosse una delle fonti ispiratrici principali di Dante. Basta seguire il testo fornito Vincenzo Segreti, di cui Gaudio era prozio, nella rivista «Calabria letteraria», che comincia con le parole Visionem admirandae ordiar historiae.
Rivalutò la Pedagogia, liberandola dalle teorie del Positivismo. Apprezzò molto le teorie pedagogiche diFerrante Aporti, Friedrich Wilhelm August Frobel, Maria Montessori e Rosa Agazzi. Considerò, infine, assai importante per la formazione spirituale e morale dei ragazzi l’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare.
Morì a 55 anni lasciando molti scritti inediti. (Carmela Galasso, con aggiornamenti e integrazioni della redazione) @ ICSAIC 2023 – 03 

Opere e scritti essenziali

  • Scuola e famiglia, discorso commemorativo per il Preside Nobile Accettella, Tip. del giornale Il Sud, Catanzaro 1910;
  • Estetica e pedagogia, Stab. Tip. del Calabro, Catania 1912 (estr. da «La Cultura dello Spirito», a. I. fasc. I-VIII); poi Tip. Raffaele Riccio, Cosenza 1913;
  • La mia piccola scuola, s.n., Cosenza 1913;
  • Principi pedagogici generali, in «Bollettino Regio Provveditorato agli Studi di Cosenza», 30 settembre 1924, p. 119;
  • Muse neglette. La poesia idillica dialettale in Calabria, Conferenza tenuta nel salone del Consiglio Provinciale di Cosenza, il 10 giugno 1923, a beneficio della Cassa scolastica della locale R. Scuola Normale, Tip. ed. R. Riccio, Cosenza 1924;
  • Un mistico fiore silano sulla via percorsa dal genio di Dante, Stab. Tip. Commerciale A. Pranno,Cosenza 1926;
  • Il Mistero religioso della Sila (Nota sulla chiesa idealista di Flora), Memoria letta all’Accademia Cosentina nella tornata del 27 gennaio 1929, Tip.  S.C.A.T., Cosenza 1929;
  • Muse neglette. La poesia idillica dialettale in Calabria; Conferenza tenuta nel salone del Consiglio Provinciale di Cosenza, il 10 giugno 1923, a beneficio della Cassa scolastica della locale R. Scuola Normale, Tip. ed. R. Riccio, Cosenza 1924;
  • Natura e poesia nel quadro idillico virgiliano, Conferenza, tip. La Veloce Serafino & Chiappetta, Cosenza 1931;
  • De gloria Paradisi, Gioacchino da Fiore, saggio, commento e traduzione, Falco, Celico 2005;
  • Gli errori e i limiti degli antichi commentatori della Divina Commedia. Annotazioni critiche sul poema (opera incompleta).

Scritti inediti

  • Alfredo Oriani scrittore, storico e politico;
  • Ippolito Nievo nel centenario della nascita, Conferenza, Cosenza 1931;
  • La lotta politica in Italia
  • La rivolta ideale
  • Appunti per una storia della cultura regionale
  • Italiae sponsalia funebria

Nota bibliografica

  • Salvatore G. Foglia, Un calabrese interprete di Dante e dell’Abate Gioacchino, Stab. tip. rag. F. Sicuro, Reggio Calabria 1932; estr. da «La coltura regionale», a. 8, n. 2-3,1932), p. 25-34;
  • Vincenzo Segreti, Dante e Gioacchino da Fiore nell’interpretazione idealistica di Raffaele Gaudio, in «Calabria Letteraria», a. XXXVIII, n. 10-12, 1989, pp. 49-52;
  • Vincenzo Segreti, La poesia del Pane e del Padula nell’interpretazione di Raffaele Gaudio, in «Calabria Letteraria», XL, n. 7-9, 1992, pp. 38-40;
  • Vincenzo Segreti, Gli scritti letterari e storici di Raffaele Gaudio, in «Calabria Letteraria», XLII, n. 1-3, 1994, pp. 52-54;
  • Vincenzo Segreti, Il pensiero filosofico e teologico di Raffaele Gaudio, in «Calabria Letteraria», a. XLIV, n. 4-6, 1996, pp. 47-51;
  • Vincenzo Segreti, Gli scritti pedagogici e il magistero di Raffaele Gaudio, in «Calabria Letteraria», a. XLV, n. 1-3,1997, pp. 59-62;
  • Vincenzo Segreti, Raffaele Gaudio letterato e filosofo, in «Calabria Letteraria», n. 4-6, 2006, pp. 107-110;
  • Carmela Galasso, Biografie di personaggi noti e meno noti della Calabria, Pellegrini, Cosenza 2009, p. 216.

Covelli, Italo

Italo Covelli [Palmi (Reggio Calabria), 24 aprile 1932 – Napoli, 2 ottobre 2008]

Uomo di scienza, docente universitario, accademico, nacque dal magistrato Eugenio e dalla gentildonna Bianca Benedetti, quinto dopo quattro sorelle. A Palmi rimase poco perché il padre, per ben undici anni magistrato di Corte d’Assise presso il locale Tribunale, fu trasferito a Napoli presso la Procura del Re. La dichiarazione di nascita, con il nome di Italo Arnaldo e Augusto, come risulta dagli atti dello stato civile, è stata resa al Podestà del tempo, avv. Vincenzo Silipigni, in presenza dei testimoni avvocati Adolfo Ferrari e Saverio Zinzi. Nella chiesa Madre, invece, ha ricevuto il Sacramento del Battesimo avendo come padrino il farmacista Bonsignore. Fino a quando la famiglia Covelli è rimasta a Palmi (12 aprile 1935) ha dimorato in via Pitagora dove l’amministrazione statale aveva costruito appositi alloggi per gli impiegati.
A Napoli il piccolo Italo ha fatto gli studi elementari, medi, superiori e universitari e nel 1956, giovanissimo, si laureò in Medicina e Chirurgia col massimo dei voti e la lode.
Nella stessa Università è rimasto dal 1957 al 1967, prima come assistente volontario (1957-1960) presso la cattedra di Patologia Generale, poi come assistente straordinario (1961-1962) e infine assistente ordinario (1962-1967). Conseguita nel frattempo la libera docenza in Patologia Generale, il 4 giugno del 1961 si è unito in matrimonio con Anna Zuppa, figlia del medico radiologo professor Armando, la quale gli diede due figli, Eugenio e Bianca entrambi medici.
In occasione del viaggio di nozze ha voluto sostare e visitare Palmi, città che gli aveva dato i natali, rimanendo commosso e, nello stesso tempo, colmo di gioia. A seguito dell’assegnazione di un contributo per la prosecuzione di una missione scientifica in Francia per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha frequentato per diversi mesi il laboratorio di chimica biologica della facoltà di Medicina e Farmacia di Marsiglia e di Parigi per compiere indagini sperimentali sulla biochimica e sulla patologia degli ormoni tiroidei.
Successivamente, essendo risultato vincitore di una borsa di studio della Nato per ricerche nelle discipline attinenti alla biologia, ha svolto importanti studi presso il dipartimento di endocrinologia del National institute of arthritis metabolism and digestive diseases in Bethesda (Usa) portando a termine ricerche particolari riguardanti i rapporti tra struttura terziaria e funzione delle proteine. Brevi periodi li ha trascorsi pure presso le università di Oxford (1979) e di Bruxelles (1983) per svolgere ricerche in campo della genetica dei microrganismi e della diagnostica infettivologica di laboratorio.
Il suo percorso accademico era iniziato con un grande punto di riferimento della Medicina napoletana e internazionale quale era Luigi Califano. All’Istituto napoletano è rimasto fino al 1971 come aiuto ordinario (qualifica conferitagli sin dal primo novembre 1967) ricoprendo, nel biennio 1968-69 anche le funzioni di professore incaricato della seconda cattedra di Patologia Generale dell’Università di Palermo e direttore incaricato dell’Istituto di Patologia Generale all’università di Perugia nel successivo periodo 1969-71. È stato direttore dello stesso Istituto presso l’Università di Messina fino al 1974 e quindi, dopo avere ottenuto la cattedra di Microbiologia, si è trasferito all’Università Federico II di Napoli per rimanervi fino al 1984. Durante i tanti viaggi compiuti da Napoli a Messina e viceversa, per svolgere la sua attività presso l’ateneo siciliano, più volte ha voluto fare delle brevi soste a Palmi.
Studioso attento delle principali tecniche di patologia sperimentale, non mancò di interessarsi di problemi concernenti la fisiopatologia e la biochimica degli ormoni tiroidei, apportando numerosi ed originali contributi. Nel 1969, per la rilevanza delle sue ricerche, l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha conferito il premio Carlo Erba alla memoria del dr. Giovanni Pauletta. 
È stato autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali riguardanti argomenti di fisiopatologia della ghiandola tiroidea (1956-1966), il meccanismo d’azione di taluni fattori di crescita epiteliale (1966-1974), le più recenti biotecnologie diagnostiche in Microbiologia e infine l’attività antibatterica di nuove molecole antibiotiche e antimicotiche. Autore di trattati di Medicina, Fisiopatologia, Microbiologia e Medicina di Laboratorio, primo fra tutti il famoso Trattato di Patologia Generale, realizzato in collaborazione con il Prof. Luigi Frati, ha scritto pure tre trattati per gli studenti di medicina e per specializzandi: Patologia Generale (in due volumi); Microbiologia MedicaMedicina di laboratorio.
Considerato un luminare in fisiopatologia, microbiologia e medicina di laboratorio, oltre all’intensa attività accademica (è stato anche direttore della Scuola di specializzazione in Microbiologia e Virologia), ha ricoperto numerosi e prestigiosi incarichi scientifici, professionali e umanitari. È stato socio ordinario residente dell’Accademia di Lettere, Scienze ed Arti di Napoli, sezione medico chirurgica; presidente della Federazione Italiana della Società di Medicina di Laboratorio (FISMeLab); presidente dell’Associazione Italiana Patologi Clinici (AIPaC); membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Microbiologi Clinici Italiani AMCLI); membro del Consiglio direttivo dell’Ordine dei medici della provincia di Napoli (dal 1982 al 1994). Dal mese di marzo del 1990 fino all’ottobre del 1996 è stato presidente del Comitato provinciale di Napoli della Croce Rossa Italiana e del decimo Centro di mobilitazione. Nel 1978 il Ministro dell’agricoltura lo nominò membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto nazionale della nutrizione di Roma. Nel 1994 la città di Capua gli ha conferito il Premio Nazionale di medicina “F. Palasciano”.
Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 27 dicembre 2008, il presidente della Repubblica lo nominò Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica.
Fu tentato anche dalla politica e nel 1987 si candidò alle elezioni comunali al quarto posto nella lista del partito liberale, risultando il primo dei non eletti.
In quiescenza dal primo novembre 2004, è stato nominato professore emerito di scienze tecniche di medicina di laboratorio e ha iniziato a collaborare come consulente in alcuni centri privati. 
Morì il giorno dei SS. Angeli Custodi, stroncato da un infarto all’età di settantotto anni. (Bruno Zappone) © ICSAIC 2023 – 03

Opere principali

  • Lezioni di patologia generale, con Luigi Frati, (s.n.), Perugia 1971
  • Patologia generale, con Luigi Frati, Florio, Napoli 1975;
  • Microbiologia clinica dell’apparato uro-genitale, con Ferruccio Mandler e A. Visconti, AMCLI, Napoli 1982;
  • Fisiopatologia generalecon Luigi Frati, Florio, Napoli 1998;
  • Patologia generale e fisiopatologia, con Luigi Frati, Frati, Florio, Napoli 1986;
  • Microbiologia medica, con Giuseppe Falcone ed Enrico Garaci, Piccin-Nuova Libraria, Padova 1991;
  • Medicina di laboratorio, con Luigi Spandrio (a cura di) e Mario Zatti, Sorbona, Napoli 1993;
    Principi di patologia generale per le lauree pre-specialistiche, con Bianca M. Veneziani, Florio, Napoli 2000;
  • Manuale pratico di diagnostica microbiologica, Associazione di volontariato Jerry Essan Masslo, s.l. 2006;
  • Patologia clinica. Ricerca e prevenzione per la salute, con De Simone E. Vincenzo Macchia, Florio, Napoli s.d.;

Nota archivistica

  • Comune di Palmi, Atti di nascita, parte I, n. 255, 1932.

Nota bibliografica

  • Renato Cimino, In ricordo di Oriente e Covelli, in «Bollettino Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Napoli e provincia», dicembre 2010, p. 34;
  • Bruno Zuccarelli, In ricordo di Italo Covelli, in «Bollettino Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Napoli e provincia», gennaio-febbraio 2011, p. 32;
  • Bruno Zappone, Uomini da ricordare. Vita e opere di palmesi illustri, Arti Grafiche Edizioni, Ardore Marina (RC) 2000, pp. 94-95;
  • Bruno Zappone, Italo Covelli. Uomini da ricordare, in «Madreterra Magazine», IV, 38, giugno 2021, pp. 38-39.

Cortese, Salvatore

Salvatore Cortese [Lungro (Cosenza), 21 febbraio 1899 – 27 luglio 1951]

Secondogenito di Domenico e Teresa Maria De Marco, nasce dopo Rosa e prima di Maria, Adelaide e Saverio. Il padre emigra a Buenos Aires nel 1906, e con la moglie decidono di mandare a scuola solo il figlio maschio (Saverio sarebbe nato nel 1919). Viene iscritto così alla scuola elementare dove ha come maestro Camillo Vaccaro, di idee socialiste, ma la precaria situazione economica della famiglia non gli consente di proseguire negli studi. Chiamato alle armi come tutti i “ragazzi del ’99”, combatte nella Prima guerra mondiale, venendo ferito e fatto prigioniero dagli austriaci. Tornato a casa alla fine del conflitto, si iscrive alla locale sezione del Partito comunista d’Italia, mettendosi in evidenza nella lotta contro gli squadristi.
Prima dell’espatrio in Argentina, avvenuto nel 1924, le autorità non lo ritengono politicamente pericoloso, ma, appena si stabilisce a Buenos Aires, fa subito pervenire nel circondario del suo paese d’origine vari giornali stranieri a carattere antifascista. A causa di una lettera scritta alla madre e contenente frasi ingiuriose nei confronti di Mussolini, il 20 agosto 1926 viene condannato in contumacia dal Tribunale di Castrovillari a otto mesi di reclusione e a mille lire di multa per offese al duce. In questo periodo svolge un’intensa azione pubblicistica, scrivendo alcuni articoli apparsi sulla rivista «Eresia» edita a New York. Nella primavera del 1930 aderisce al Comitato locale pro vittime politiche del fascismo che in quei giorni si stava occupando della raccolta di fondi – iniziativa promossa, oltre che da lui, da Aldo Aguzzi, Lino Barbetti, Luigi Fabbri e Carlo Fontana – a favore soprattutto dei compagni di fede Gigi Damiani, Gino D’Ascanio, Gino Lucetti, Sante Pollastro e della vedova di Giuseppe Turchi. 
Svolge attiva propaganda anche nelle officine delle ferrovie locali, fa parte dei gruppi “Umanità nova” e “L’Avvenire”, capeggiato da Aguzzi, e scrive sul periodico L’Allarme, organo dei comunisti anarchici di Buenos Aires. Nel 1928 subisce il primo arresto.
Per sfuggire alla polizia, è spesso costretto a cambiare domicilio. Entrato poi in polemica con la redazione dei settimanali comunisti La Internacional e Ordine Nuovo per divergenze di vedute circa il caso di Francesco Ghezzi, l’anarchico condannato a tre anni di reclusione nell’Unione Sovietica per propaganda antinazionale, nel 1930 abbandona completamente gli ideali comunisti ed entra nel gruppo di “Umanità nova” capeggiato da Barbetti, all’interno del quale viene eletto segretario del Comitato anarchico pro vittime politiche italiane. Ritenuto pericolosissimo dalle forze dell’ordine, in questo periodo è in contatto con la redazione de L’Italia del popolo, quotidiano italiano comunista di Buenos Aires, e le autorità rintracciano il suo nominativo nelle carte sequestrate a Severino Di Giovanni; viene quindi iscritto in «Rubrica di frontiera» per il provvedimento di fermo, perquisizione e segnalazione. Al momento della presa del potere da parte del generale José Félix Uriburu nel settembre 1930, fugge dall’Argentina e si rifugia a Montevideo, in Uruguay, assieme ai compagni di fede Aldo Aguzzi e Giacomo Barca, venendo ospitato dal locale sindacato degli operai. Qui collabora con la rivista Studi sociali pubblicata da Luigi e Luce Fabbri.
Segnalato nel «Bollettino delle ricerche» nel marzo 1931 perché sospettato di aver partecipato moralmente agli attentati dinamitardi di matrice anarchica avvenuti negli ultimi anni, viene rintracciato, arrestato e recluso nel carcere federale argentino di Villa Devoto. In tale circostanza la LIDU si attiva per evitare la sua espulsione e quella di altri anarchici italiani, ma inutilmente. Imbarcato coattivamente sulla nave da guerra Chaco il 13 febbraio 1932 assieme a oltre un centinaio di persone di diverse nazionalità espulse dall’Argentina in quanto indesiderabili, tra cui ventiquattro italiani, viene consegnato alla polizia all’atto dello sbarco a Napoli avvenuto il 23 marzo successivo. Tradotto a Cosenza, la locale CP, con ordinanza del 20 giugno, lo assegna al confino per cinque anni destinandolo a Ponza (LT).
In colonia riesce a mantenere i contatti con gli anarchici argentini, come risulta dalla revisione della corrispondenza; la polizia gli sequestra infatti alcune lettere tra le quali quella spedita da Miguel Monano, che aveva fatto pervenire alla madre di Cortese un sussidio da parte dei compagni di Buenos Aires.
Il 1° aprile 1937 viene liberato per fine periodo, ma su di lui continua a essere esercitata una sorveglianza rigorosissima. Iscritto nell’elenco delle persone pericolose da arrestare in determinate contingenze, il 27 marzo 1939 viene fermato in occasione della visita del duce, venendo rilasciato dopo qualche giorno. Negli anni seguenti, pur conservando inalterate le proprie idee, non dà più luogo a rilievi di natura politica. 
Il 7 settembre 1941 sposa Rosina Cortese, e il 24 ottobre 1942 viene alla luce il figlio Domenico che vive solo 10 giorni. Un anno dopo, il 17 ottobre 1943, nasce la figlia Maria Teresa. Il 15 febbraio 1950, durante un suo ricovero a Roma per un tumore al rene, a Lungro nasce il figlio a cui viene dato il nome di Domenico.
Tornato attivo nel dopoguerra, Salvaturi Piliviut, come è chiamato in paese, lascia definitivamente la politica, preferendo la lettura e il lavoro di commerciante.
Muore a Lungro a soli 52 anni per un tumore al rene. I suoi funerali si svolgono con rito civile. (Katia Massara) © ICSAIC 2023 – 03 

Nota bibliografica

  • Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, diretto da M. Antonioli., G. Berti, S. Fedele, P. Iuso, BFS, Pisa 2003-2004, ad vocem e ad indicem;
    «Volontà», nn. 1-3, 1955;
  • Salvatore Carbone, Un popolo al confino. La persecuzione fascista in Calabria, Lerici, Cosenza 1977 (poi Brenner, Cosenza 1989), ad vocem;
  • Katia Massara, L’emigrazione sovversiva. Storia di anarchici calabresi all’estero, Le Nuvole, Cosenza 2003, pp. 27-29 e 38n-39n;
  • Domenico Cortese, Salvatore CorteseUn antifascista arbëresh di Lungro, Masino, Lungro 2007;
  • Luigi Fabbri, Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900-1935), a cura di R. Giulianelli, BFS, Pisa 2005, p. 295; 
  • Katia Massara e Oscar Greco, Rivoluzionari e migranti. Dizionario biografico degli anarchici calabresi, BFS edizioni, Pisa 2010, ad nomen.

Nota archivistica

  • Archivio Centrale dello Stato, CFP, b. 286, cc. 196, 1932-1937; 
  • Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, b. 1491, f. 19131, cc. 105, 1926-1942; S 13A, b. 5, f. 24, 1933 e 1939.

Cacozza, Francesco

Francesco Cacozza [Fiumefreddo Bruzio (Cosenza), 11 maggio 1851 – Napoli, 24 dicembre 1931]

Nasce da Nicola e Rosa Iorio, il padre era fer­roviere. Non si conosce molto della sua infanzia e del corso di studi seguito. Probabilmente frequentò le scuole elementari nel suo paese natale e successivamente proseguì a Catanzaro gli studi ginnasiali. Aderisce all’Internazionale e intorno al 1878 entra nelle Ferrovie come impiegato e due anni dopo, giunto a Napoli con l’incarico di capostazione, fonda con Fe­licò e Merlino Il Grido del popolo. Il 3 gen­naio 1881 è arrestato con alcuni compagni per cospi­ra­zione e attentato contro la sicu­rezza dello Stato; scarce­rato il 25 febbraio 1882 viene licen­ziato per motivi politici dalle ferrovie. Dopo la svolta “legalitaria” di Costa, rompe con Mer­lino e invita Cafiero a prendere la guida del movi­mento a Napoli.
Nell’anno del colera, 1884, si prodigò per portare aiuto alle persone più povere che vivevano nei quartieri più degradati e fatiscenti e dopo l’approvazione della legge sul Risanamento di Napoli, difese quelle famiglie sfrattate, manu militari, dalle case che dovevano essere abbattute. 
In quel convulso periodo divenne popolarissimo, e la sua popolarità crebbe quando le case promesse agli sfrattati costruite al Vasto, furono abitate solo da chi poteva pagare, giacché le pigioni erano alte. Lo stesso capitò a Santa Lucia. Il Borgo Marinai, costruito per accogliere i pescatori del posto, per la stessa ragione – affitti elevati – di pescatori non ne accolse neppure uno.
Popolare e per niente turbato dalle continue carcerazioni, don Ciccio saliva su una sedia e teneva comizio; spiegava ai popolani che era un loro diritto avere una casa e consigliava di occupare le case al Vasto e di non pagare l’affitto. Non riusciva quasi mai a concludere i suoi comizi: l’arrivo delle guardie era immancabile al pari dei mesi di carcere. Uomo non violento, l’anarchico non opponeva resistenza all’arresto, scontava la detenzione e poi tornava più convinto di prima alla sua battaglia politica, combattuta in solitudine da buon anarchico individualista. 
Riammesso nelle ferrovie, ai primi del 1887 è tra i promo­tori del gruppo Humanitas e re­sponsabile del foglio omonimo, che per l’ampiezza dei temi trattati fa da riferimento per tutti gli anarchici. In ago­sto lascia la redazione di Humanitas ritenuta ormai su posizioni moderate, e fonda con Bergama­sco e Felicò il circolo comunista-anar­chico “Il Lavoratore”, che pubblica Il De­molitore. Organo comunista-anarchico, il cui primo numero, uscito il 17 settembre 1887, porta in epigrafe la frase: «Il lampo della baionetta di Agesilao Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinarii, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese», tratta dal Testamento politico di Carlo Pisacane. Il giornale viene subito sequestrato mentre un secondo numero, uscito il 1° ottobre, preannuncia una periodicità mensile, poi non mantenuta. Il gruppo di cui scrive il programma si ispira a un indivi­dualismo estremo che rifiuta «dogmi, prin­cipi stabili che in ogni luogo e ogni tempo non sono ser­viti che d’inciampo al progresso». 
Il 12 febbraio 1889 sposa un’ereditiera, si licenzia e va a vivere a Vie­tri di Po­tenza, da dove torna spesso a Napoli a continuare le sue battaglie. Arrestato il 1° maggio 1891, appena scarcerato intensifica l’attività di propa­ganda, collabora con La Croce, che esce a Napoli nel 1892 e a fine aprile, in vista del 1° maggio, viene nuovamente fer­mato per misure di Pubblica sicurezza.
Nel maggio 1896 si stabili­sce di nuovo a Napoli e nel 1897 entra nel gruppo “Carlo Cafiero”, guidato da Mi­chele Acanfora. Di lì a poco, il 5 e 14 settembre, pub­blica due numeri unici intitolati Il Turbine, incappa in una denuncia per violazione della legge sulla stampa, poi si ado­pera con Francesco Del Giudice per riunire i compagni di­visi dalla collaborazione con i socialisti nella campagna contro il do­micilio coatto e ot­tiene la fusione dei due fogli anarchici che escono a Napoli, Il Turbine e L’Affamato
Nel marzo 1898 sottoscrive il mani­festo di solidarietà con Ma­late­sta e i redattori de L’Agitazione ed è poi, arrestato per i moti di maggio. Al processo, che si tiene a giugno, conte­sta la legit­timità della corte mar­ziale, rifiuta di di­fendersi ed è condannato a due anni di carcere per istigazione a delinquere. Esce per amni­stia il 4 gen­naio 1899 ed è subito diffidato. 
A novembre del 1902 si imbarca come infer­miere su un pi­roscafo diretto a New York e ri­com­pare il 18 febbraio 1904, con un articolo che esce su Il Grido della folla di Milano e gli costa quat­tro mesi e mezzo di carcere. Quanto basta per tenerlo in pri­gione buona parte dell’anno. Tornato li­bero, nel lu­glio 1905 dirige L’Iconoclasta, che ha vita brevissima; il 12 giugno 1906, si intro­duce nella Camera del De­putati, apostrofa Giolitti con un «Voi mentite! Siete un bugiardo! Voi state ingannando il popolo», e, prima di essere identificato, arrestato e condannato a due mesi di carcere, fa in tempo a partecipare al Con­gresso nazionale anar­chico, che si apre il giorno 16 a Roma. Nel 1908, con Mel­chionna e Petrucci, svolge un’attiva propaganda tra gli inquilini dei rioni popolari, riuniti in leghe di resistenza, creando pro­blemi alla Società del Risana­mento, che non riesce a eseguire gli sfratti. Pesante la risposta repres­siva, fatta di fermi improvvisi e carcerazioni brevi e ripetute, che però non lo scoraggiano.
In prima fila nelle agitazioni contro il carovita, non perde occa­sione per diffondere volantini che portano la sua firma e il 5 giu­gno 1909 assume la dire­zione del giornale La Plebe, che si stampa fino al 30 marzo 1910. Sono per lui anni di mi­li­tanza a tempo pieno: parte a piedi, all’alba, dalle falde del Vesuvio, dove vive in una ba­racca che si è co­struito con le sue mani – il “Nido Libero”, dalla quale viene continuamente sfrattato – e in città arringa i la­voratori in lotta contro il rincaro delle pigioni, l’ampliamento della cinta daziaria e il caro­viveri.
Benché vigilato, il 14 giu­gno 1913 riesce a entrare di nuovo in Parla­mento, sta­volta vestito da prete, ma è fermato prima che inizi il dibattito. Il suo è un gesto dimostrativo di protesta contro la Camera che si appresta a votare il decreto di approvazione delle spese militari per la guerra di Libia. La notizia, ripresa dalla stampa francese, spagnola e inglese, fa il giro del mondo per la singolarità della protesta.
Popolaris­simo tra gli operai per la generosità e la coerenza delle scelte, il 9 giugno 1914, quando in città scoppiano i moti della Setti­mana rossa, guida i ma­nifestanti nei san­gui­nosi assalti alla stazione ferro­viaria e nei duri scontri nelle vie del centro fino al 10 giu­gno, quando viene arre­stato. Esce per amnistia il 3 gennaio 1915 e il 1° mag­gio, parlando ai lavo­ratori, si schiera per la neutralità a ol­tranza ed è segnalato tra i sovversivi disfattisti. Il 24 maggio 1916, anniver­sario dell’intervento, è fermato mentre in­cita gli operai a lottare per la pace. Torna in carcere il 24 feb­braio 1917, dopo le mani­festazioni per il caroviveri, e il 18 lu­glio, durante lo sciopero generale dei metal­mec­canici, viene di nuovo arre­stato per un mani­fe­sto che incita alla disobbedienza e alla guerra civile ed è condannato a otto mesi di carcere. Scarcerato il 25 marzo 1918 riprende la sua attività or­ganiz­zando una lega di resistenza tra gli inqui­lini ed il 4 mag­gio 1919 riesce a portare in piazza nu­merosi dimo­stranti. Il 28 dicembre poi finisce in carcere per violazione della legge sulla stampa e «istigazione all’odio tra le classi sociali». Tornato libero per am­nistia, il 29 aprile 1920 parla ai metallurgici in sciopero.
Il fascismo non lo intimidisce e sfida più volte la violenza squadrista: il 16 febbraio 1922, quando di­stribuisce volan­tini davanti a Montecitorio, il 30 maggio 1923, quando, sempre vestito da prete, viene fermato mentre dalle tribune lancia manifestini anarchici nell’aula del Parlamento, e il 22 dicembre 1924, allorché denuncia nel regime trionfante dopo la crisi Matte­otti «una fucina di de­litti» animata da «uomini politici e di­rettori di giornali arricchiti dalla teppa». Tornato a Napoli, vecchio e isolato, apre un’edicola, attività che gli consente di proseguire la sua azione di propaganda e di lotta pacifica e non violenta contro un regime ottuso che lo sottopone, alla soglia degli ottant’anni, al provvedimento dell’ammonizione, preludio del confino di polizia.
Muore a Napoli in un ospizio per i po­veri nella notte di natale del 1931. (Antonio Orlando) © ICSAIC 2023 – 03

Nota bibliografica 

  • Walter Mocchi, I moti italiani del 1898. Lo stato d’assedio a Napoli e le sue conseguenze, Tipografia Muca, Napoli 1901;
  • Ferdinando Cordova, Storia minore: Ciccio Cacozza, in «Historia», V, 46, 1961;
  • PierCarlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, Milano 1969;
  • Michele Fatica, Origini del fascismo e del comu­nismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia, Fi­renze 1971;
  • Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol. 1. t. 1. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), Firenze 1972;
  • Marcella Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale, Guida Editore, Napoli 1978;
  • Nunzio Dell’Erba, Le origini del socialismo a Napoli. 1870-1892, Franco Angeli Editore, Milano 1979;
  • Pier Fausto Buccellato, Marina Iac­cio, Gli anarchici nell’Italia Meridionale. La stampa (1869-1893), Bulzoni, Roma 1982;
  • Silvano Fasulo, Storia vissuta del sociali­smo napoletano 1896-1951, Bulzoni, Roma 1991; 
  • Giuseppe Aragno (a cura di), La Settimana Rossa a Napoli. Giugno 1914: due ragazzi caduti per noi, La città del sole, Napoli 2000;
  • Giuseppe Aragno, Dizionario Biografico degli anarchici italiani, (a cura di Maurizio Antonioli, Nico Berti, Pasquale Iuso e Santi Fedele) vol. I., BFS edizioni, Pisa 2003, ad nomen;
  • Fabrizio Giulietti, L’anarchismo napoletano agli inizi del Novecento. Dalla svolta liberale alla Settimana rossa,Franco Angeli, Milano 2008;
  • Katia Massara e Oscar Greco, Rivoluzionari e migranti. Dizionario biografico degli anarchici calabresi, BFS edizioni, Pisa 2010, pp. 69-71.

Nota archivistica

  • Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen;
  • Archivio di Stato, Napoli, Giustizia, Processi, Corte d’Assise, sentenza 864/914 del 12/2/1915;
  • Archivio di Stato, Napoli, Gabinetto di Questura, 2a serie, b. 90, 172, 195, 199; 3a serie (1919-1932), b. 674 e Polizia ammini­strativa e giudiziaria, b. 390 e 396.

Bona, Vincenzo

Vincenzo Bona (Catanzaro, 31 marzo 1833 – Napoli, 28 aprile 1909)

Avvocato, patriota e giornalista, nacque dall’avvocato Francesco e da Donna Teresa Catanzaro. Studiò a Catanzaro e quindi per frequentare l’Università si trasferì a Napoli dove nel 1853 conseguì la laurea in Giurisprudenza. Esercitò subito la professione forense nella sua città. Nel maggio 1857 sposò Donna Franceschina Berni Canani figlia del conte Stefano, dalla quale ebbe due figli: Patrizia e Francesco.
Era nipote di un vecchio Carbonaro del 1820, che dal «Gran Concistoro» di Catanzaro aveva diffuso le idee liberali in tutte le “vendite” carbonare calabresi.
Ancora giovane partecipò all’insurrezione del 1848, che ebbe il suo epilogo nella battaglia del Ponte delle Grazie. Tenne attiva corrispondenza coi profughi calabresi e andava a Napoli per mantenere deste le patriottiche speranze: gli furono intimi Francesco Stocco, Luigi Caruso, Giovanni Nicotera, Luigi Miceli, Benedetto Musolino, i De Riso, De Luca, Assanti, Pepe ed altre glorie nostre. Tenne intensa corrispondenza con Fabrizii, con Miceli, con Bixio.
Il patriottismo calabrese ebbe fra le sue schiere giovani di cuore, di entusiasmo, d’azione, e i maggiori all’amore di patria non disgiunsero quello degli studi. Fra questi Bona, il quale esercitò a Catanzaro la professione di avvocato, con fortuna e con onore: presiedette il Consiglio dell’Ordine degli avvocati; tenne cattedra di diritto e procedura penale e di diritto amministrativo nelle scuole universitarie di Catanzaro per 24 anni – mantenendola all’altezza in cui l’avevano portata Giacinto Oliverio, Antonio Jannoni, Francesco Laratta, Bernardino Grimaldi – e per 27 anni rappresentò il mandamento di Santa Severina e fu membro della Deputazione provinciale, anche al tempo in cui la presiedette Bernardino Grimaldi, al tempo cioè in cui la vita pubblica catanzarese era nelle mani di uomini passati alla storia. Anche lui fu presidente del Consiglio provinciale.
Altruista, destinò sé e il suo patrimonio al bene del paese. Con questo sacrificio continuo e con la facondia del suo dire – giacché era oratore eloquentissimo – egli poté trascinare le masse per la sua via.
Temperamento sempre ribelle a ogni imposizione e ingiustizia, patì lunghe avversità. Il prof. G. B. Caruso disse: «Quei generosi sdegni, quelle impazienze perigliose, quegli impeti irrefrenabili, erano divenuti moti istintivi dell’animo suo; e in ogni contingenza della vita, era sempre un irrequieto, un agitatore, un cospiratore, un lottatore gagliardo. Gliene vennero amarezze infinite; parve facilmente mutevole: suscitò tempeste di polemiche; ma rimase saldo; saldo, e soprattutto ammirato per acume di mente, per fertilità di mezzi di lotta; per tenacia, per rettitudine».
Fondò, tra i primi, alcuni giornali, che in Calabria videro la luce per combattere le battaglie a sollievo della regione nostra. I suoi articoli (vedi il trisettimanale Nuovo Periodo, fondato nel 1867, continuazione di Il Cittadino calabrese, un bisettimanale che aveva visto la luce tre anni prima, il 24 giugno 1864: di entrambi fu proprietario e direttore) erano fuochi di fila nelle lotte feconde che si combattevano in quel periodo importante della vita pubblica catanzarese, e alla quale partecipavano i migliori uomini d’un’epoca feconda d’ingegni altissimi e di patrioti autentici.
Scriveva elegantemente e le sue colonne stampate si leggevano con interesse per gli argomenti che trattava e si leggevano con piacere per le arguzie che usava: attaccò sempre con violenza coloro i quali mantenevano fede allo scacciato sovrano e coloro i quali non sostenevano le idee della Sinistra storica.
Il Bona fu un mazziniano convinto – Giuseppe Mazzini l’ebbe a fianco fedelmente, e gli volle bene – né cambiò mai nel suo intimo la sua fede sincera. 
Di lui è stato scritto: «La ribellione essendo nella sua natura pugnace, eccolo coinvolto coi pochi audaci per i tentativi di Aspromonte, eccolo pronto a rinunziare sdegnosamente il pingue ufficio di ricevitore generale di finanza, per non essere impiegato di quel triste governo, che aveva osato fermare e ferire Garibaldi: eccolo pubblicare il Nuovo Periodo che sembrerebbe audace persino ai giorni nostri, tanto fragore di battaglia e di violenza di linguaggio e larghezza di criteri democratici diffondeva per le nostre regioni».
Mori a Napoli all’età di 76 anni. (Luigi Aliquò Lenzi e Filippo Aliquò Taverriticon aggiornamenti) © ICSAIC 2023 – 03 

Pubblicazioni

  • Prose e versi necrologici per la morte del barone Alberto De Nobili cittadino catanzarese dei Mille di Marsala, Asturi, Catanzaro 1867;
  • L’amministrazione provinciale della media Calabria, Catanzaro 1871;
  • Per il trasporto da Napoli a Cardinale della salma di Francesco De Luca. Discorso, Catanzaro 1875;
  • Relazione della deputazione provinciale della Calabria ultra seconda nell’amministrazione 1897-1898,Catanzaro 1899.

Nota bibliografica

  • Luigi Aliquò Lenzi e Filippo Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi, Vol. I, Tip. Ed. Corriere di Reggio, Reggio Calabria 1972, pp. 140-141;
  • Claudio Ruga e Renato Caroleo, La storia di Catanzaro in … 365 giorni da ricordare. Avvenimenti, personaggi, opere dalle origini ai tempi nostri corredati da curiosità fotografiche, Tipolitografia Modugno, Catanzaro 2001;
  • Carmela Galasso, Biografie di personaggi noti e meno noti della Calabria, Pellegrini, Cosenza 2009, p. 80.

Argiroffi, Emilio

Emilio Argiroffi [Mandanici (Messina), 2 settembre 1922 – Pedara (Catania), 28 maggio 1998] 

Medico, parlamentare, scrittore e poeta, nacque a Mandanici (Messina) da Giovanni, che fu anche sindaco del paese, e Olga Caterina Raber, di origini mitteleuropee, in una delle tante famiglie della borghesia liberale siciliana. Come risulta dagli atti dello Stato Civile portava anche i nomi di Maria e Giuseppe. Visse la propria infanzia e giovinezza nel paese natio e, conseguita la maturità classica, si iscrisse alla Facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università di Messina, malgrado fosse sempre stato attratto dalla letteratura, quella greca e latina in particolare.
Si laureò nei tempi previsti, malgrado il periodo bellico, e dopo le prime esperienze professionali nel circondario messinese, arrivò nel 1949 a Taurianova, dove aveva avuto un incarico nel reparto di medicina del locale ospedale.
Per le sue qualità umane e per la sua sensibilità nei confronti dei pazienti, divenne l’interlocutore dei braccianti agricoli, degli indigenti, dei genitori di bambini ammalati e affamati e dei tanti anziani, tutta gente che all’epoca non aveva un’assistenza sanitaria pubblica.
Viene ricordato come un medico scrupoloso e, soprattutto, amorevole nei confronti dei pazienti, e senza velleità di carriera, ma eccelse anche in altri campi, nella letteratura, nell’arte figurativa e nella politica.
La sua adesione al Partito Comunista Italiano non era preceduta da un percorso di militanza, né – tantomeno – da tradizioni familiari, ma fu espressione di una coerenza morale legata a valori di solidarietà e vicinanza nel fare propri i problemi degli altri. Nel partito, peraltro, Argiroffi apparteneva alla corrente minoritaria migliorista di Napolitano e Tatò ed era considerato un socialista-liberale.
La sua prima candidatura al Parlamento, nel 1968, venne decisa non tanto dal Partito, ma dalla gente del territorio, che individuò in lui un rappresentante idoneo a sostenere i propri bisogni e le proprie aspettative. Era il “candidato della speranza”. Si narra che le donne del luogo recitassero il rosario per la sua elezione.
Eletto al Senato nel Collegio di Palmi sotto il simbolo PCI per la prima volta nella tornata del 19 maggio 1968, fece parte della Commissione Permanente “Igiene e Sanità” e di quella speciale per i problemi ecologici, nonché di quelle riguardanti i pareri per l’ordinamento dei servizi degli enti ospedalieri e dell’amministrazione e contabilità degli stessi. Venne rieletto alle consultazioni del 7 maggio 1972 e confermato, per la sua competenza, nelle Commissioni “Igiene e Sanità” e “Problemi ecologici”. 
Nella successiva tornata del 20 giugno 1976, pur avendo conseguito consensi pari al 33,42%, non fu eletto per via dell’assegnazione dei seggi a livello nazionale in carenza di raggiungimento del quorum, ma dallo stesso meccanismo venne poi favorito nelle elezioni tenutesi il 3 giugno 1979 e nel corso di quella legislatura fece parte, oltre che della Commissione “Igiene e Sanità”, anche di quelle sul fenomeno della mafia e di quella d’inchiesta sul caso Sindona.
Dal portale del Senato della Repubblica si evince la sua intensa attività, con la sua firma di relatore sulle prime leggi promulgate in merito all’inquinamento acustico e, soprattutto, per l’istituzione degli asili nido comunali con il concorso dello Stato. 
È stato un politico molto apprezzato per le sue capacità di dialogare costruttivamente con le controparti, per la determinazione con la quale conduceva battaglie per l’affermazione dei diritti umani, per il riscatto e la dignità della gente del Mezzogiorno d’Italia, e, per questo motivo, continua a essere ricordato non solo dalla comunità taurianovese, cittadina della quale si è sempre sentito parte integrante, avendovi vissuto per quasi mezzo secolo, ma da tutta la gente della Piana di Gioia Tauro, che costituiva il suo collegio elettorale e l’area dalla quale provenivano i suoi pazienti in ospedale. 
Ricordandolo nel decennale della sua scomparsa, Giuseppe Bova, che è stato Presidente del Consiglio Regionale della Calabria, lo definì «una significativa personalità del nostro tempo, capace di sottolineare nel corso della sua vita l’impegno politico, quello di medico e di artista, un percorso plurimo teso a individuare la propria identità, il bisogno di libertà di cittadine e cittadini, che materializzava in varie attività».
Era dotato, infatti, di oratoria autorevole e coinvolgente, ma usava le parole dei suoi elettori e della gente del posto. Traspariva, però, sia la piena conoscenza dei classici sia della macchina della politica.
La sua passione per la letteratura non fu di secondo piano, anzi, ebbe riconoscimenti di elevato livello in sede nazionale e venne finanche selezionato per il Premio Viareggio per la silloge I grandi serpenti miei amici (1981). La sua produzione letteraria, che comprende saggi e raccolte di poesie, è fortemente permeata dai valori della memoria e dal confronto di questi con la realtà, con una marcata visione delle disuguaglianze sociali e una piena condivisione dei bisogni degli ultimi, ma intrisa di stile e struttura classica. Poesie delicate ma forti, dolcissime ma aspre, riconducibili spesso all’onomatopea.
Leonida Repaci lo definì «poeta calabrese, italiano, europeo, poeta ellenico e futurista, poeta di poemi subito classici, poeta post-montaliano destinato a pesare». Il noto maestro Ennio Morricone, in un album dal titolo Musiche da camera del 1985 incise un brano da lui composto su Due poesie notturne di Emilio Argiroffi. Non pochi studiosi e critici letterari hanno considerato Argiroffi una delle voci più alte della poesia italiana della seconda metà del Novecento. Fu definito anche il «Neruda calabrese» e fu molto attivo nell’ambito del Circolo Culturale Rhegium Julii di Reggio Calabria, soprattutto quale animatore dei “caffè letterari”. 
Non trascurabile neppure la sua produzione pittorica, che in parte si trova nella collezione privata della signora Nicoletta Allegri Zerbi, costituita da lavori realizzati con tecniche diverse, prevalentemente ritratti, e anche autoritratti, e finanche vignette satiriche sulla politica degli anni in cui sedette a Palazzo Madama. 
Argiroffi non contrasse mai matrimonio e visse a Taurianova con la sorella Maria (che teneva al doppio cognome Argiroffi Raber), nubile, che si dedicò totalmente a lui in vita e che ne ha curato la memoria dopo la sua scomparsa. È stata lei, poco prima di morire, nel 2010, a donare alla città di Palmi, una biblioteca costituita da migliaia di volumi, anche rarissimi, nonché opere d’arte proprie e di altri autori, codici miniati, porcellane, argenti e altri manufatti pregevolissimi provenienti da tutto il mondo.
Nel 1993 Argiroffi ridiscese nell’agone politico. Il Consiglio comunale di Taurianova, nel 1991, era stato il primo a essere sciolto per infiltrazioni mafiose e la sua candidatura venne proposta a gran voce. Eletto sindaco, ereditò un disastro amministrativo e politico, vi furono consiglieri del PDS della sua lista che vennero arrestati, anche se poi prosciolti per insussistenza dei fatti, una situazione generale contingente molto grave sotto il profilo sociale ed economico. Tuttavia, negli ultimi due anni del mandato riuscì a risanare i conti e a programmare importanti lavori pubblici.
Dopo quell’esperienza non fece più politica attiva e si ritirò tra i suoi libri e le opere d’arte. I suoi problemi di salute si erano manifestati con più severe avvisaglie e si spense all’età di 75 anni in una clinica di Pedara, nel catanese. 
Per Alessandra Romeo «Chi ha conosciuto Emilio Argiroffi sa quanto la sua presenza fosse, letteralmente, memorabile: l’arte della conversazione – che si elevava a condivisione ora leggera ora potentemente illuminante su qualunque tema, dal più tenue al più impegnativo che occupasse l’arco amplissimo dell’orizzonte “civile” del suo stare al mondo – era solo uno degli aspetti di quella alta humanitas in cui autorevolezza (di linguaggio, di formazione, di sapere) e amabilità giocavano un ruolo decisivo per l’esito ammaliante della sua interlocuzione». 
Riposa nella cappella di famiglia del cimitero di Mandanici. (Letterio Licordari) © ICSAIC 2023 – 03

Opere

Poesia

  • I grandi serpenti miei amici, Casa del Libro, Roma 1981;
  • Madrigale siciliano con alfabeti e tamburi, Alter studio, Reggio Calabria 1984;
  • Epicedio per la Signora che si allontana: trilogia poetica, Centro Studi Medmei, Rosarno 1985;
  • Le stanze del Minotauro, Gangemi, Roma 1985;
  • L’imperatore e la notte, Gangemi, Roma 1985;
  • Il cimento della parola sconosciuta, Laruffa, Reggio Calabria 1990;
  • Gli usignoli di Botonusa, Rubbettino, Soveria Mannelli 1991;
  • L’oasi della parola. Caffè letterari 1990, con nota critica di Walter Mauro, Rubbettino, Soveria Mannelli 1991;
  • La grotta di Endimione, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995;
  • Viaggio a Micene, ovvero Onomàkluton Orphèn: silloge poetica, Centro Studi Medmei, Rosarno 1996;
  • Trenodia per la morte di Abele, ovvero Alò qui Marcinelle, Laruffa, Reggio Calabria 1996;
  • Le azzurre sorgenti dell’Acheronte, Città del Sole, Reggio Calabria 2006 (postumo, a cura del C.L. Rhegium Julii);
  • Le pescatrici del Piano delle Fosse, Città del Sole, Reggio Calabria 2006 (postumo, a cura del C.L. Rhegium Julii).

Saggistica

  • Nocività e inquinamento a Marghera (con Ivone Chinello), Gruppo PCI Senato, Roma 1973;
  • La nuova legge contro la droga, Ufficio Stampa PCI, Roma 1976;
  • Lo sport, Sansoni, Firenze 1982;
  • Tre Nobel tra Scilla e Cariddi: I. Brodskij, T. Morrison, D. Walcott, Rhegium Julii, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997;
  • Otto marzo di fine millennio per la poetessa Gilda Trisolini, Officina Grafica, Villa San Giovanni 2006 (postumo).

Nota bibliografica

  • Poesia di Argiroffi, in «Gazzetta del Sud», 20 gennaio 1985;
  • Poesia di Emilio Argiroffi, in «Rinascita Sud», dicembre 1985;
  • Poeti reggini, in Incontro con la poesia (Roma – Campidoglio, 12 aprile 1985) a cura del C.L. Rhegium Julii, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, pp. 92-93;
  • Antonio Piromalli, La letteratura calabrese, Pellegrini, Cosenza 1996, pp. 228-230;
  • Xenos Acronos, Gitano della parola, in «Corriere della Piana», n. 14, settembre 2013, pp. 26-27;
  • Antonio Piromalli e Carmine Chiodo, Antologia della letteratura calabrese, 2000, p. 260- 262;
  • Alessandra Romeo, Poeta che ne faremo delle tue parole? Emilio Argiroffi tra presenza e parola, Convegno La parola reincarnata.Drammaturgie possibili in Calabria: intorno a Raoul Maria De Angelis, Franco Costabile, Emilio Argiroffi, Dams, Università della Calabria, 14-17 novembre 2011.

Salerno Michele (Mike)

Michele Salerno [Castiglione Cosentino (Cosenza), 25 dicembre 1901 – Roma, 10 giugno 1978]

È nato il giorno di Natale da Luigi Giacinto, contadino, e Anna Acri. Ebbe due sorelle, Edvige e Pierina, e un fratello, Gabriele,
Frequentò le scuole a Castiglione Cosentino e Cosenza, ha fatto il servizio militare a Verona nel 79° Reggimento di Fanteria e fu congedato il 1 ottobre 1921. Rientrato a Castiglione andò a bottega per diventare sarto. Militò giovanissimo nel Partito Socialista e dopo la scissione di Livorno aderì al Partito comunista d’Italia. Fu il primo segretario della Federazione giovanile del Partito a Cosenza. Di famiglia cattolica, perseguitato per motivi politici e costretto a subire angherie da parte dei vari gerarchi, nell’ottobre del 1923, esattamente un anno dopo la presa del potere da parte del fascismo, fu costretto a emigrare negli Stati Uniti dove si trovavano già padre e zio. Sposato con un’esule, Elizabeth Esbinsky detta Betty, che era nata e viveva a Chojniki, un villaggio bielorusso da cui dovette fuggire per salvarsi dopo un pogrom in cui i cosacchi di una nota milizia polacca-ucraina uccisero una sua zia che tentava di scappare. Ebbero nel 1939, un figlio, Eric, che sarebbe diventato giornalista prima a Paese Sera e poi a Il Messaggero dove per quasi trent’anni ha seguito le vicende del Medio Oriente con base a Gerusalemme. Uno dei nipoti di Michele, Andrea Salerno, ha seguito il mestiere del padre e del nonno ed è diventato direttore della rete tv La7.
Arrivato negli USA, Michele divenne Mike e iniziò la sua attività giornalistica e politica entrando in rapporto con i gruppi antifascisti di Harrisburg, in Pennsylvania città in cui si era inizialmente stabilito. Da Harrisburg si trasferì a New York e nel 1934 a Chicago per un breve periodo, per ritornare nuovamente a New York, dove viveva nel Bronx.
Sarto e giornalista – così viene definita la sua attività negli Stati Uniti nel fascicolo del Casellario politico centrale, Nel periodo di permanenza a Chicago è stato redattore del settimanale del partito comunista d’America L’Unità Operaia.
Fu sempre in prima fila nelle battaglie antifasciste e molto attivo nel movimento anti-coloniale. Assunse lo pseudonimo di Tito Nunzio con cui firmò molti articoli e un suo libretto dal titolo Perché la guerra in Africa, in cui denunciava la guerra condotta da Graziani contro l’Etiopia, che ebbe diffusione non solo in alcune città americane, ma anche in Italia. Nel 1935 l’Ambasciata italiana a Washington venne informata dal Console generale a New York di una manifestazione contro lo stesso Consolato durante la quale «i noti comunisti Salerno Michele e Siracusa Antonio, due negri ed un rappresentante del “Daily Worker”, montati sulle spalle di compagni pronunciarono dei discorsi all’angolo della 70ª strada a Lexington Avenue». Al suo rapporto il Console aggiungeva una copia del giornale comunista che annunciava la manifestazione alla quale presero parte un centinaio di militanti.
Dal 1928 al 1940 è stato iscritto al Partito comunista d’Italia e nel 1944 si iscrisse al Partito comunista degli Stati Uniti diventando il responsabile della sezione italiana. Nel novembre del 1936 prese la parola in un pubblico comizio organizzato per stigmatizzare e denunciare l’aiuto dato da Hitler ai fascisti spagnoli. Nel 1937 si recò clandestinamente in Spagna (da maggio ad agosto) per seguire l’attività dei combattenti italiani della brigata Lincoln che lottavano contro l’avanzata delle truppe di Franco. Esattamente un anno dopo il suo rientro a New York nacque nella metropoli americana il figlio Eric.  
Salerno fu direttore del settimanale proletario italo-americano, La parola del popolo, e dal 1944 al 1950 di L’Unità del popolo, voce del comunismo italo-americano. Arrestato nel 1948, venne rilasciato pagando una cauzione di 1.000 dollari. L’anticomunismo americano stava montando e dopo ben ventotto anni di residenza negli Stati Uniti durante i quali si era sempre battuto contro capitalismo e imperialismo, fu vittima del Procuratore generale Tom Clark e della legge McCarran del 1950 e fu deportato in Italia con l’accusa di essere comunista e di mantenere rapporti col Partito comunista dell’Unione sovietica. Gli agenti del Fbi (Federal Bureau of Investigation) che lo accompagnarono alla nave, gli dissero che se avesse fatto abiura del comunismo poteva rientrare negli Usa.
Cosi il figlio Eric, allora undicenne, in seguito ha raccontato nel libro “Rossi a Manhattan” edito da Il Saggiatore, la partenza forzata del padre da New York con il piroscafo “Saturnia”: «Un colpo esteso della sirena, cupo, tutto sommato triste, prima di scivolare via con il suo carico di 379 passeggeri. Uomini, donne e bambini, vestiti a festa, spingevano contro le ringhiere della nave e della banchina, agitavano mani e braccia e si lanciavano grida in un inglese spesso stentato oppure in quella moltitudine – a me incomprensibile allora e talvolta oggi – di dialetti italiani o italo-americani che fanno parte del bagaglio culturale dei vecchi immigrati. L’atmosfera era di grande allegria. Per tutti tranne che per noi, famiglia e amici. E, soprattutto, per Mike, spedito via come un pacco dopo ventott’anni negli States e costretto a tornare – non che gli dispiacesse troppo, a dire il vero – nella sua patria, la terra che aveva sempre continuato ad amare e di cui parlava in continuazione ma che certamente, per lui, abituato alle cose positive come a quelle negative della società americana, sarebbe stata una realtà nuova e complessa e, cosi presto dopo la fine della guerra, anche dura».
Cacciato dall’America si stabilì con la famiglia a Roma, tornò a chiamarsi Michele e continuò a fare il giornalista. Iniziò subito a lavorare nell’ufficio stampa della CGIL. Quindi è passato alla redazione esteri del Paese Sera, dove è diventato vicedirettore, incarico che mantenne fino al 1964, pur dimostrandosi fortemente critico per l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. Nel giornale è stato anche segretario della cellula del PCI.
Ha collaborato con editoriali e articoli con diversi giornali e riviste di sinistra, tra cui Rinascita, Rivista Internazionale del Dialogo, Scienze e Società, Political Affairs. E ha scritto anche diversi libri tra cui America nera, Gerusalemme demistificata, Filosofia della prassi Il compromesso storico.
Eletto nelle liste del PCI, dopo la pensione fu impegnato come sindaco di Anticoli Corrado, un piccolo comune a una sessantina di chilometri da Roma, dove nel 1965 fu artefice del rinnovamento e della riapertura al pubblico del Museo d’arte moderna e contemporanea, dotandolo anche di nuove opere regalate dai numerosi pittori che risiedevano o vi avevano vissuto e lavorato nel cosiddetto “paese delle modelle”.
È deceduto all’età di 77 anni e riposa nel piccolo cimitero di Anticoli Corrado, insieme alla moglie Betty.
Di lui resta il volto in Mani sulle città, film di Francesco Rosi.
Il comune di Castiglione Cosentino gli ha dedicato uno spazio pubblico. E finché il Pci è esistito, la sezione comunista del paese in cui era nato e dove aveva passato i primi vent’anni della sua vita, ha portato il suo nome. (Aldo Lamberti) © ICSAIC 2023 – 02 

Opere

  • Filosofia della prassi, La Guiscarda editrice, Cosenza-Roma 1967:
  • America nera, Tindalo, Roma 1970;
  • Automazione e teoria marxista, Pellegrini editore, Cosenza, 1971
  • Gerusalemme demistificata. Realtà israeliana contro ideologia sionistica ed antisionistica, Bulzoni, Roma 1973;
  • Contro la ragion pigra. L’uomo e la società, Bulzoni, Roma 1974;
  • Il compromesso storico, Lerici, Cosenza 1977;

Firmate Tito Nunzio

  • Prefazione a Charles Rappoport, Il comunismo spiegato ai lavoratori, Casa editrice Unità, New York 1930;
  • Perché la Guerra in Africa (Why the War in Africa?), Casa editrice Unità, New York 1935.

Nota archivistica

  • Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario Politico Centrale, b. 4534, f. 3326;


Nota bibliografica

  • John Cappelli, Conobbi Mike in un Club del Bronx, in «Paese Sera», 12 giugno 1978, p. 5;
  • Ricordo di Michele Salerno, in «Il Gazzettino del Crati», 15 luglio 1978;
  • Eric Salerno, Rossi a Manhattan, Il Saggiatore, Roma 2001;
  • Amelia Paparazzo, Katia Massara, Marcella Bencivenni, Oscar Greco e Emilia Bruno, Calabresi sovversivi nel mondo: l’esodo, l’impegno politico, le lotte degli emigranti in terra straniera (1880-1940), Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 38-40;
  • Gerald Meyer, L’Unità del Popolo: The Voice of Italian American Communism, 1939-1951, in «Political Affairs», 2 ottobre 2009, http://www.politicalaffairs.net/l-unit-del-popolo-the-voice-of-italian-american-communism-1939-1951.

Ringraziamenti

  • Si ringraziano per la collaborazione Eric Salerno e il sindaco di Castiglione Cosentino, Salvatore Magarò.

Sabato, Alfredo (Alfred)

Alfredo (Alfred) Sabato [Fuscaldo (Cosenza) 23 marzo 1894 – Los Angeles (USA) 10 febbraio 1956]

Il nome completo, come risulta dagli atti dello Stato Civile del Comune di Fuscaldo, era Alfredo Guglielmo Sabatino. Nacque da Eugenio Lelio Remigio Maria, notabile della cittadina del Tirreno Cosentino che fu anche Segretario del Comune, e da Raffaella Costanza Ceraldi, appartenente a una influente famiglia fuscaldese che in passato aveva espresso personaggi di rilievo, come Pasquale, precettore del re di Napoli Ferdinando II e docente presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università partenopea, Francesco (che fu magistrato e presidente della Suprema Corte di Catanzaro), e Vincenzo, anch’egli avvocato, che dagli annali risulta essere stato uno dei difensori dei Fratelli Bandiera e di altri otto imputati innanzi l’Alta Corte Marziale nel 1844. 
Era l’ultimo di undici figli: gli altri erano, in ordine di nascita, Emma, Clelia, Mercedes, Giuseppe, Irene (che morì in giovane età, come Clelia e Giuseppe), una seconda Irene, Francesco, Carmine, Clotilde e Vittorio.
Trascorsa l’infanzia a Fuscaldo, dopo il ginnasio e la maturità classica, si iscrisse all’Università, a Roma, conseguendo il 31 luglio del 1919 la laurea in Scienze Economiche, Commerciali, Coloniali ed Attuariali, con qualche anno di ritardo sia a causa della Prima Guerra Mondiale sia per gli interessi verso il mondo dello spettacolo che aveva coltivato durante il soggiorno romano.
Scoppiata la Grande Guerra, difatti, venne arruolato nei Granatieri (Guardie Reali) e inviato al fronte, rimanendovi sino alla fine del 1916, quando venne richiamato a Roma con funzioni di istruttore dei giovani ufficiali sino al termine del conflitto. 
Nel mondo dello spettacolo, verso il quale era attratto ben più che da quello dell’economia, si era affacciato quando era ancora studente, sia pur con ruoli marginali, e riprese a frequentarlo quando venne congedato dal servizio militare. Nel 1919, stesso anno in cui conseguì il titolo accademico, venne nominato Direttore Generale della Eliseo Film, ma si dimise dopo alcuni mesi a seguito delle ingerenze della politica e della borghesia. Manifestò, sia pur timidamente, la sua avversione al regime, soprattutto dopo la Marcia su Roma del 1921.
Nel 1924 decise di emigrare negli Stati Uniti d’America, convinto che prima o poi sarebbe stato oggetto di rappresaglie da parte del Regime, al pari del fratello Francesco, ingegnere delle Ferrovie dello Stato che dal 1916 al 1923 aveva diretto i lavori delle più importanti infrastrutture realizzate all’epoca in Italia.
Entrambi si stabilirono a Los Angeles. Il fratello trovò dapprima occupazione da disegnatore e poi esercitò la libera professione, mentre Alfredo venne attratto da Hollywood, quartiere della città dove da anni si esprimeva ai massimi livelli l’arte cinematografica, definita la “settima arte”, e operavano le maggiori case di produzione come la Paramount, la MGM, la First National, la Universal, la Fox e la Warner Bros, all’avanguardia per le sperimentazioni di dispositivi riguardanti le luci e le tecniche di ripresa.
Alfredo riuscì a introdursi in quell’ambiente, anche perché l’orientamento dei produttori era rivolto alle figure professionali provenienti dall’Europa, essendo stati i soli Charlie Chaplin, britannico, e Maurice Tourneur, francese, a essere stabilmente occupati nell’industria cinematografica americana. Alla Paramount Sabato aveva conosciuto Cecil Blount DeMille, noto regista, produttore e montatore, divenendone presto collaboratore.
Dagli studi hollywoodiani erano da poco usciti due film importanti (I quattro cavalieri dell’Apocalisse, diretto dall’irlandese Rex Ingram, del 1921, e Ben Hur, diretto dallo statunitense Fred Niblo, del 1925), e le produzioni erano alla ricerca di validi sceneggiatori e montatori, non solo di registi. 
Erano tutti film muti, e solo nel 1927 uscì nelle sale statunitensi il primo film sonoro, diretto da Alan Crosland, dal titolo The jazz singer, prodotto dalla Warner Bros, con dialoghi in lingua inglese. 
Sabato proprio in quell’anno, il 5 febbraio, contrasse matrimonio a Los Angeles con Helene Margaret Hermàn, ventiquattrenne originaria della Pennsylvania, testimoni Anne Luria di Atlantic City e il nipote Salvatore Monaco, figlio della sorella Emma, stabilitasi nella città californiana sin dal 1906. Alfredo e Helene Margaret non ebbero figli e alcuni anni dopo prima s separarono e poi il divorziarono.
In quegli anni, oltre alle collaborazioni per le scenografie, Sabato (divenuto “Alfred”) aveva partecipato ad alcuni film in qualità di attore, ma non in ruoli secondari: nel 1927 in Isle of Sunken Gold diretto da Harry S. Webb, nel 1928 in Street Angel e The River, entrambi diretti da Frank Borzage. La stampa dell’epoca gli dedicò spazio dalle colonne del Los Angeles Recorddell’Hollywood Philmograph, dell’Hollywood Cal. Citizene di altre testate.
Nel 1930, però, assieme a Guido Trento, che aveva recitato in film muti italiani e in Street Angel di Borzage, sostenuto dalla Cooperativa Italotone Inc., facente capo al cantante e attore italiano Alberto Rabagliati, dal 1927 a Hollywood quale vincitore di un concorso indetto dalla Fox per la ricerca di un sosia dello scomparso Rodolfo Valentino, e che si avvaleva del sostegno economico dei viticoltori della California, fu il regista di Seitu l’amore?, tratto da una commedia di Pier Angelo Mazzolotti (che curò la sceneggiatura), film che ebbe quali protagonisti lo stesso Rabagliati e Luisa Caselotti, una cantante lirica anch’essa figlia di immigrati italiani. 
Un lavoro divenuto importante per la storia della cinematografia italiana in quanto, pur essendo prodotto negli Stati Uniti, è stato il primo film sonoro parlato girato in presa diretta in lingua italiana. Lo conferma un testo del prof. Denis Lotti, ricercatore del Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona e storico del cinema italiano, muto e sonoro, della prima metà del Novecento, considerato che la storiografia del settore ha attribuito per anni questo primato a un film in lingua italiana prodotto in Italia nello stesso anno (La canzone dell’amore, diretto da Gennaro Righelli, della casa cinematografica Cines Pittaluga). Attraverso approfondite ricognizioni sulla stampa dell’epoca sia negli Stati Uniti che in Italia, però, si evince che la distribuzione nel nostro Paese del film co-diretto da Sabato avvenne prima dell’uscita di quello di Righelli.
Difatti, dopo la “prima” al Teatro Tivoli di San Francisco, il 16 agosto 1930, presente anche la protagonista femminile Luisa Caselotti, il film venne proiettato per tre settimane nei cinema e teatri della Mulberry Street a New York, nella Little Italy. L’arrivo nelle sale italiane, nel mese successivo, venne salutato con interesse ma, soprattutto, con curiosità da parte del pubblico, per la novità del sonoro, e divenne un vanto da parte del governo fascista, come emerse da un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 12 settembre di quello stesso anno 1930. In una pagina intera de Il Piccolo di Trieste del 21 settembre per presentare il film al Politeama Rossetti della città giuliana si legge: «Il grande avvenimento cinematografico del 1930 – Il primo film parlato italiano», con l’annotazione della presenza di 250.000 spettatori in 12 giorni all’Odeon di Milano, che disponeva di 2.500 posti con il “tutto esaurito” per 8 proiezioni giornaliere, dalle 10 del mattino sino a mezzanotte. Al teatro milanese, peraltro, la sera del 20 settembre, arrivarono “spettatori augusti”, così si legge in una brochure della Italotone Inc. del febbraio 1931, gli allora Principi di Piemonte Umberto di Savoia e Maria Josè del Belgio, sottolineando che era la prima volta che Principi di Casa Reale si recavano in un cinematografo pubblico. Il film venne poi proiettato a Roma, con la prima al Teatro Capranica il 4 ottobre e in molte altre città italiane.
Con lettera del 13 aprile 1931 il Vice Console italiano a Los Angeles comunicò a Sabato anche il «compiacimento da parte di S.E. Mussolini per l’attività svolta come direttore della pellicola».
L’esperienza alla regia di Sabato, nonostante il buon successo, non venne ripetuta, anche perché il regime fascista temeva una colonizzazione culturale statunitense in danno della cinematografia italiana e la Italotone Inc. non produsse altri film dello stesso genere (musicale). Rimase nel mondo del cinema anche negli anni del dopoguerra curando la sceneggiatura di molti film e interpretandone altri diretti da registi con i quali aveva collaborato.
In quegli anni Sabato tornò di tanto in tanto a Fuscaldo a far visita ai parenti rimasti in Calabria, ma i suoi interessi erano a Los Angeles, dove morì all’età di 62 anni e dove venne cremato. (Letterio Licordari) © ICSAIC 2023 – 03 

Attività cinematografica

Interpretazioni

  • Time to love, 1927, regia di Frank Tuttle
  • Isle of Sunken Gold, 1927, Harry S. Webb 
  • Street Angel, 1928, Frank Borzage 
  • The River, 1928, Frank Borzage
  • No dejes la puerta abierta, 1933, Lewis Seiler
  • La ciudad de carton, 1934, Louis King
  • The clock, 1945, Vincente Minnelli
  • The spanish main, 1945, Frank Borzage
  • Carnival in Costarica, 1947, Gregory Ratoff
  • Escape me never, 1947, Peter Godfrey

Regia

Sei tu l’amore? (You are the love?), 1930 (co-regista Guido Trento)

Nota bibliografica

  • «Rivista del Cinematografo», n. 9 – settembre 1930;
  • Alessandro Blasetti, Servizio di turno, in «Cinematografo», 5-6, 1930
  • Dizionario Enciclopedico dei Film, Ed. Rusconi, Milano 1980;
  • Il Cinema – Grande Storia Illustrata, Istituto De Agostini, Novara 1981;
  • Aldo Bernardini, Cinema muto italiano, Cineteca di Bologna, Bologna 2018;
  • Giuliana Muscio, Italiani a Hollywood, in L’Italia a Hollywood, Ed. Skira, Milano 2018;
  • Denis Lotti, Il primo film tutto parlato in italiano. Il dibattito dedicato a Sei tu l’amore? nella stampa d’epoca, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n. 22/2022, pp.145-160.

Muratore, Domenico Girolamo

Domenico Girolamo Muratore (Casalnuovo, oggi Cittanova (Reggio Calabria), 27 luglio 1777 – Reggio Calabria, 4 novembre 1850)

Il cognome è spesso indicato con la “i” finale; nacque in una famiglia di agiati proprietari terrieri da Francesco e Girolama D’Agostino. Il giorno di nascita tradizionalmente riportato è, in realtà, quello del battesimo, avvenuto nella Chiesa matrice dedicata a san Girolamo e il nome imposto era Giacomo Domenico, mentre la lapide, posta sulla facciata della sua casa natale, oggi Palazzo Castellano, indica come anno di nascita il 1771. Si racconta, però, che all’età di cinque anni, scampò miracolosamente al crollo della casa paterna durante il terribile terremoto del febbraio 1783 (“il Flagello”) perciò l’anno di nascita non può che essere il 1777.
Compì i primi studi sotto la guida del padre e proseguì poi con l‘aiuto di due religiosi, don Giuseppe Florio e don Domenico Foti, lo studio del latino e del greco e infine completò la sua preparazione in campo scientifico con il medico Giuseppe Grio. Nel 1798 venne mandato a Napoli per studiare Legge in quella Università insieme con i compaesani Domenico Fida e Antonino Raso. Entrò subito a far parte dei circoli massonici e liberali legandosi d’amicizia con Giuseppe Logoteta, Girolamo Arcovito e don Antonio Jerocades.
Alla proclamazione della Repubblica si arruolò nelle milizie combattenti e fu a capo del manipolo di soldati, centocinquanta circa, che presidiarono e difesero valorosamente il Forte di Vigliena. Dopo una disperata resistenza, nel momento in cui le truppe sanfediste, al comando del Ten. Col. Rapini, anche lui originario di Reggio, stavano per penetrare nel fortino, i giovani calabresi decisero di far saltare in aria la polveriera con il preciso intento di perire insieme agli assalitori. Pur riportando vistose ferite, si salvarono solo in tre: il Muratori, l’Arcovito e Nicola Busurgi, che vennero arrestati e incarcerati prima a Pizzofalcone poi a Castelcapuano. Data la giovane età, al Muratori venne comminata la pena dell’esilio sotto condizione di trasformarla in pena capitale nel caso fosse rientrato nel Regno. Trasferitosi a Marsiglia «visse di stenti e di espedienti» per quasi due anni e nel settembre nel 1801 rientrò a Casalnuovo per riabbracciare i familiari. 
Conseguita la laurea a Napoli, nel 1806 ritornò nel suo paese natale ma per poter svolgere la pratica legale si stabilì nel capoluogo presso lo studio dell’avvocato Furnari. Riallacciò i rapporti con Arcovito e Busurgi, anch’essi rientrati dall’esilio francese, ed entrò a far parte di una Loggia massonica diretta dal Venerabile Carlo Plutino e della quale facevano parte il canonico Paolo Pellicano, Vincenzo Catalani, Paolo Minardi, i fratelli Plutino e molti altri liberali.
Il governo murattiano lo nominò Controllore delle contribuzioni dirette per la Calabria Ulteriore Prima, un incarico corrispondente a quello di dirigente degli uffici tributari.
Dopo la restaurazione del governo borbonico, ritornò alla professione di avvocato esercitando in tutti i comuni della provincia e specialmente a Palmi dove si fece conoscere e apprezzare per la sua loquela e le sue indiscusse doti di umanità, ragionevolezza ed equilibrio.
Nel 1819 sposò una sua lontana cugina, Maria Concetta Muratore, dalla quelle ebbe due figli Francesco, che sarà eletto deputato nel 1861, dopo l’annullamento delle due elezioni di Diomede Marvasi, e Girolamo, che sarà sindaco di Cittanova, a fasi alterne, dal 1863 al 1866.
Aderì alla Carboneria e partecipò attivamente ai moti insurrezionali del 1820 e una volta che il re, Ferdinando IV, emanò la Costituzione, svolse un’intensa attività di propaganda a favore di Arcovito e Grio, candidati a rappresentare Reggio nel nuovo Parlamento del Regno. La nuova Costituzione affidava al parlamento il compito di eleggere una importante magistratura – il Consiglio di Stato – e quali componenti per la Calabria Ulteriore vennero eletti il gen. Luigi Arcovito, l’Intendente Michele Maria Milano da Polistena, il Muratori e il vescovo mons. Alessandro Tommasini.
A marzo del 1821, a seguito dell’occupazione del Regno da parte delle truppe austriache, la Costituzione venne abrogata e il M. fu costretto a riprendere la sua attività di avvocato, senza cessare la sua propaganda carbonara e antiborbonica. Nel 1847 fece parte della Giunta insurrezionale, presieduta da Casimiro Lieto, e guidò l’assalto al castello che fu conquistato dai rivoltosi. Con l’arrivo di truppe di rinforzo da Napoli, scattò la violenta repressione borbonica e il giudice della Gran Corte Criminale, Francesco Mongelli, investito di poteri straordinari, incriminò i componenti del comitato insurrezionale come rei di Stato e su di essi, dichiarati «banditi dalla legge comune», fu applicata una taglia di mille ducati da pagare a chiunque avesse consegnato vivo uno dei sette componenti e di trecento ducati a favore di chi avesse ucciso uno di loro o avesse consegnato il capo mozzato di uno di essi. Muratori, insieme con i due figli, i fratelli Plutino e Francesco Mezzatesta, si rifugiò prima a Bova e poi a Bovalino con l’intento di imbarcarsi verso Malta. 
Vista l’impossibilità della fuga per via di mare, attraverso lo Zomaro raggiunse Casalnuovo e si rifugiò nella casa del medico Giuseppe Raffaele Raso rimanendo nascosto fino al 23 gennaio 1848, data in cui il sovrano proclamò un’amnistia generale. Il 29 gennaio Ferdinando II emanò la nuova Costituzione del Regno che prevedeva, oltre all’elezione del Parlamento, una completa riforma amministrativa. Con decreto del ministro dell’Interno, Francesco Paolo Bozzelli, M. venne nominato Intendente, cioè prefetto, di Calabria Ultra e dopo qualche mese venne designato come candidato per il distretto di Palmi per l’elezione a deputato. 
Nella prima elezione, che si tenne in due turni tra il 18 aprile e il 2 maggio 1848, non venne eletto mentre risultarono eletti sia Antonino Plutino sia Giuseppe Raffaele Raso. Questa elezione venne annullata e nella seconda elezione, tenuta il 18 giugno, il M. venne eletto insieme al Raso, confermato a Casalnuovo. Con elezione a deputato, cessò dalla carica di Intendente e al suo posto venne nominato il cav. Giuseppe De Nava, trasferito da Monteleone. Nella seduta inaugurale del Parlamento, 3 luglio 1848, M. presentò subito una petizione e una interpellanza sui poteri che erano stati accordati al gen. Nunziante per le operazioni militari nelle Calabrie e nello specifico, con riferimento ai fatti dell’Angitola, sui quali il deputato pretendeva che il Generale riferisse all’assemblea. Com’è noto, l’ambiguo comportamento di molti deputati e le trame di alcuni lealisti, provocarono frequenti conflitti di competenza tra il Parlamento a la Corte, che portarono allo scioglimento e a successive ricostituzioni, in un clima sempre di forte tensione e di grande incertezza.
Nonostante la sua brevissima durata (furono tenute 47 adunanze) il Parlamento ebbe modo di varare diversi provvedimenti innovativi, rimasti, purtroppo, inattuati, prima di essere definitivamente sciolto il 13 marzo 1849. Rientrato a Reggio, M. venne arrestato e incriminato per i fatti del settembre 1847 che avrebbero dovuto essere coperti dall’indulgenza regia dell’anno prima. Fu costretto di nuovo a scappare, ma gli amici lo convinsero a costituirsi sicuri che al processo sarebbe stato assolto.
Una volta incarcerato gli venne riservato un trattamento durissimo tanto che, dopo neppure un anno di detenzione, il 4 novembre del 1850 morì e corse subito voce che fosse stato avvelenato. Il corpo non fu riconsegnato ai parenti, che pure si adoperarono in tutti i modi per ottenerne la restituzione e tributargli onorata sepoltura. Non fu consentito ai familiari neppur di far eseguire un ritratto del loro congiunto anzi, il De Cristo, racconta che le nuore, che avevano segretamente accompagnato in carcere, un pittore, tale Lipari, scoperti dalle guardie, furono costrette a fuggire mentre il pittore venne arrestato e i bozzetti che aveva appena disegnato venero sequestrati e distrutti.  
Lo storico Gaetano Borruto narra che la salma fu portata al cimitero e «qual ultimo miserabile…avanti che sepolto fosse, la rabbia dell’iniquo partito sull’insensibile corpo la sua vendetta sfogar volendo, con vari colpi di martello per ciò fracassarono il cranio dell’onorevole deputato!».
A Cittanova e a Reggio Calabria vi sono due vie a lui dedicate.  (Antonio Orlando) © ICSAIC 2023 – 02 

Nota bibliografica

  • Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825, (a cura di Anna Bravo), Utet, Torino 1975;
  • Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, (a cura di Franco Nicolini), Laterza, Bari 1913;
  • Ferdinando Serrao De Gregorio, La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese contro i francesi, 2 voll., Novissima Editrice, Firenze 1934;
  • Pasquale Turiello, Il fatto di Vigliena13 giugno 1799, Lacaita, Manduria (BA) 1999;
  • Armando Dito, La Storia della massoneria calabrese: Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria, Brenner, Cosenza 1980;
  • Carla Lodolini Tupputi, Il Parlamento Napoletano del 1848 –1849. Storia dell’istituto ed inventario dell’archivio,Camera dei Deputati, Archivio Storico, Roma 1992;
  • Vincenzo De Cristo, Cittanova memorie glorie, (a cura di Arturo Zito de Leonardis), MIT, Cosenza 1974;
  • Vincenzo Mezzatesta, Domenico Girolamo Muratore eroe di Vigliena e martire dell’Unità d’Italia, in Cittanova di Curtuladi, a cura di Arturo Zito de Leonardis, MIT, Cosenza 1986.

Marincola, Giorgio

Giorgio Marincola [Mahaddei Uen (Somalia), 23 settembre 1923 – Castello-Molina di Fiemme (Trento), 14 maggio 1945]

Ricordato come il «partigiano nero», nasce in Somalia, in un presidio militare italiano a cinquanta chilometri a nord di Mogadiscio, da Giuseppe (Pizzo Calabro, 1891 – Roma 1956), maresciallo maggiore di fanteria, e dalla somala Aschirò Hassan, nativa di Harardere, cittadina distante 400 km da Mogadiscio. È battezzato e prende il nome del nonno paterno; due anni dopo a Mogadiscio nasce la sorella Isabella che prende quello della nonna. Quando il maresciallo Marincola lascia la Somalia per tornare in Italia porta con sé i due figli, e nel giugno 1926 sposa Elvira Floris, una ragazza sarda sorella di un suo commilitone, e si stabilisce a Roma portando con sé solo la figlia; Giorgio, invece, resta a Pizzo, affidato allo zio Carmelo e alla moglie Emilia Calcaterra che non hanno avuto figli. A Pizzo, il ragazzo, vive in un ambiente di grande libertà e dagli amici riceve il soprannome di “Yò yò”. Nel 1933, dopo la morte dello zio, Giorgio raggiunge il padre a Roma. Frequenta il liceo-ginasio Umberto I e ha per insegnante di Storia e Filosofia Pilo Albertelli, esponente del movimento liberal-socialista di Guido Calogero e di Aldo Capitini, che sarà poi ucciso alle Fosse Ardeatine. Albertelli esercita sul giovane Giorgio una profonda influenza e inciderà sulle sue successive scelte. Nel 1941, concluso il liceo, Giorgio si iscrive alla facoltà di Medicina e aderisce al Partito d’Azione, militando nella terza zona che comprende i quartieri Salario, Parioli, Nomentano e Montesacro. Nel 1943, ancora studente di medicina, entrò nelle formazioni armate del Partito d’azione, partecipando così alla Resistenza romana. Costretto ad abbandonare Roma ai primi di marzo del 1944, dopo l’arresto di Albertelli e quello di un altro compagno, Corrado Giove, trascorre un breve periodo nel Viterbese con il Gruppo Bande “Pironti” (dal nome del conte Giuseppe Pironti organizzatore delle prime formazioni partigiane operanti fra Viterbo e Prima Porta) per rientrare, poi, nella capitale nei giorni della Liberazione.
È tra i partigiani che occupano la redazione del quotidiano Il Messaggero, pilastro della propaganda fascista, e la sede della milizia della strada in via Brenta nel quartiere Coppedè. Roma è libera ma Giorgio ha ormai deciso di battersi a oltranza contro il nazifascismo. Il 19 giugno, così, si arruola
nello Special Operations Executive, l’intelligence militare britannica, che sulle colline di Monopoli, in Puglia, sta organizzando una brigata internazionale con partigiani provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Prende il nome di battaglia “Mercurio” e inizia la sua attività.
La sera del 20 agosto viene paracadutato, insieme a Edgardo Sogno (il conte torinese, fedele alla dinastia sabauda, era il tramite fra i servizi britannici e il Corpo Volontari della Libertà) e altri cinque compagni, nei pressi di Zimone, a sud di Biella. Portano armi, munizioni e una radio ricetrasmittente per le formazioni Giustizia e Libertà, il braccio armato del Pd’A, in una zona controllata dai garibaldini di Gemisto (al secolo Francesco Moranino). Durante una delle numerose attività di sabotaggio è ferito a una gamba e nel gennaio del 1945 viene arrestato. Tradotto a Biella nella famigerata Villa Schneider, dove ha sede il comando della polizia militare tedesca, viene costretto a parlare dai microfoni di Radio Baita, un’emittente che ha lo scopo di diffondere notizie false e propaganda antipartigiana, ma Mercurio ha il sorprendente coraggio di proclamare in diretta la sua fedeltà ai principi di giustizia e di libertà, nettamente antitetici al fascismo. In febbraio viene trasferito nelle carceri di Torino e nel mese di marzo al campo di concentramento nazista Polizeilicher Durchganglager di Bolzano che il 30 aprile 1945 viene consegnato alla Croce Rossa Internazionale. Quel giorno Mercurio rifiuta di salire su un camion della Croce Rossa che lo avrebbe portato al sicuro in Svizzera, nonostante gli fosse ordinato dal comando della missione, e insieme a un compagno di prigionia di nome Vittorio si dirige verso la Val di Fiemme per prendere contatti con il CLN di Cavalese (TN) che organizza uno dei più intensi movimenti partigiani del Trentino.
Il 14 maggio viene ucciso, insieme ad altri dieci partigiani e a dieci civili, nel villaggio di Stramentizzo, a Castello-Molina di Fiemme, da una colonna SS in ritirata. Aveva solo 22 anni.
È stato decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Questa la motivazione: «Giovane studente universitario, subito dopo l’armistizio partecipava alla lotta di liberazione, molto distinguendosi nelle formazioni clandestine romane, per decisione e per capacità. Desideroso di continuare la lotta entrava a far parte di una missione militare e nell’agosto 1944 veniva paracadutato nel Biellese. Rendeva preziosi servizi nel campo organizzativo ed in quello informativo ed in numerosi scontri a fuoco dimostrava ferma decisione e leggendario coraggio, riportando ferite. Caduto in mani nemiche e costretto a parlare per propaganda alla radio, per quanto dovesse aspettarsi rappresaglie estreme, con fermo cuore coglieva occasione per esaltare la fedeltà al legittimo governo. Dopo dura prigionia, liberato da una missionealleata, rifiutava porsi in salvo attraverso la Svizzera e preferiva impugnare le armi insieme ai partigiani trentini. Cadeva da prode in uno scontro con le SS germaniche quando la lotta per la libertà era ormai vittoriosamente conclusa».
Per ricordarlo una fermata della metro C di Roma, che collegherà San Giovanni e Fori Imperiali, porterà il suo nome. (Pino Ippolito Armino Pantaleone Sergi) © ICSAIC 2023 – 02 

Nota bibliografica

  • Carlo Costa, Lorenzo Teodonio, Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945), lacobelli editore, Guidonia (Roma) 2008;
  • Dacia Valent, Il Partigiano nero. Storia di Giorgio Marincola, Medaglia d’oro della Resistenza, Sito Mediazione culturale, 17 ottobre 2016; https://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=8772
  • Pino Ippolito Armino, Storia della Calabria partigiana, Pellegrini, Cosenza 2020, pp. 56-58;
  • Lara Tomasetta, “Vi racconto mio zio Giorgio Marincola, il partigiano nero che finalmente oggi l’Italia riconosce”, TPI – The Post Internationale, 27 agosto 2020, https://www.tpi.it/cronaca/partigiano-giorgio-marincola-morto-italia-20200827654134/.

Malgeri, Alfredo

Alfredo Malgeri (Reggio Calabria, 14 agosto 1892 – Milano, 10 giugno 1977)

Nacque in una famiglia della media borghesia reggina. Il padre Vincenzo, infatti, era un impiegato dell’Agenzia delle Imposte di Reggio. 
Studiò nella città natale e conseguì il diploma di Geometra presso l’Istituto Tecnico. Il 5 novembre 1912 si arruolò nella Guardia di Finanza, nella quale fece una brillante carriera che lo vide dapprima comandante di plotone durante la Grande Guerra e successivamente comandante di importanti reparti territoriali e d’istruzione, tra cui, nel 1938, dell’11ª Legione territoriale Salentina che aveva competenza anche su Rodi.
Sposò Orsola Grauso, una ragazza di Marcianise conosciuta tramite il fratello Salvatore che fu questore a Treviso e Udine. Pure suo figlio Vincenzo, anch’egli diventato generale della Guardia di Finanza, si sposò con una marcianisana, Annamaria Grauso.
Malgeri fu uno dei protagonisti della Resistenza in Lombardia. Alla data dell’8 settembre 1943, infatti, con il grado di colonnello, si trovava al Comando della III Legione del Carroccio della Guardia di Finanza di Milano. Aderendo sin dall’inverno 1943-1944 al Movimento resistenziale sorto in Lombardia, fu proprio grazie a lui che le Fiamme Gialle operanti nella regione si prodigarono in aiuto delle varie organizzazioni partigiane aderenti al Corpo Volontari della Libertà, ma anche – ed è questo il valore aggiunto – a favore dei tanti profughi ebrei che da Milano e dal Nord Italia in generale si spingevano verso la frontiera con la Svizzera, dando opportune istruzioni onde consentire la loro fuga verso la libertà.
L’alto ufficiale stipulò, a riguardo, una sorta di “patto tra galantuomini” con i suoi subalterni, ai quali ordinò a voce direttamente o comunque osservando la scala gerarchica, di lasciare passare dalle frontiere vigilate dai minuscoli reparti del Corpo quanti avessero avuta la necessità di raggiungere la Confederazione Elvetica, onde salvarsi dalla “grande caccia”.
Ma l’ordine non fu una mera “liberazione di coscienza” da parte di un fervente cristiano, tutt’altro! Esso fu un impegno concreto, come ci dimostrano decine di pagine di atti ufficiali, custoditi nel suo fascicolo personale presso il Museo Storico.
Dotato di un coraggio leonino, ma soprattutto di quella forte determinazione che distingue i Calabresi,
l’allora colonnello Malgeri difese a spada tratta i suoi uomini, anche quando questi, catturati dai tedeschi per motivi politici, erano finiti a San Vittore.
In decine di casi, non esitò a recarsi personalmente presso i vertici militari e polizieschi germanici di stanza a Milano, pur di salvare dalla deportazione quanti erano stati arrestati, sia per aver aderito alla Resistenza che per aver aiutato ebrei e perseguitati.
Non solo, ma in una circostanza in particolare non esitò a punire disciplinarmente, con tanto di carteggio ufficiale, alcuni suoi ufficiali, responsabili di non aver saputo difendere il finanziere Giovanni Gavino Tolis, catturato su delazione a Ponte Chiasso (Como) proprio per aver salvato decine di ebrei, morto poi, il 28 dicembre 1944, di stenti e sevizie nel lager austriaco di Mauthausen, e oggi Medaglia d’Oro al Merito Civile “alla memoria”.
Senza il colonnello Malgeri e senza la catena di aiuti che egli stesso impostò lungo tutta la linea di frontiera con la Svizzera, migliaia di ebrei, di soldati sbandati, renitenti alla leva e persino ex prigionieri di guerra alleati non avrebbero avuta salva la vita. Per quanto sospettato di far parte della Resistenza, seppe tutelare l’organizzazione resistenziale sorta tra le fila della Guardia di Finanza del Nord Italia, e ciò in perfetta sintonia con il Corpo Volontari della Libertà e con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Con il maggiore Egidio Liberti, capo delle formazioni di Giustizia e Libertà in Lombardia,già nel febbraio 1945, d’accordo con il CLN, aveva predisposto il piano insurrezionale che prevedeva l’impiego della Guardia di Finanza, a quel punto «unica forza regolare, militarmente organizzata, posta al servizio della causa», nella rivolta antitedesca. La storia della Resistenza ci ricorda, infine, che nell’aprile del 1945, nella parte finale del conflitto, prese accordi con il generale Raffaele Cadorna, Comandante del Corpo Volontari della Libertà per affiancare i partigiani nell’imminente insurrezione generale. Quando arrivò il momento, tramite il tenente della Guardia di Finanza Augusto De Laurentiis, uscito il giorno prima da San Vittore, ufficiale di collegamento tra il CLN Alta Italia e il Reggimento di formazione, ricevette l’ordine di insurrezione generale programmato per la notte tra il 25 e il 26 aprile, ordine redatto a mano e firmato da Leo Valiani.
In esso si ordinava alle Fiamme Gialle di impossessarsi della Prefettura e di espugnare, condizioni militari permettendo, gli edifici della Muti, della Guardia Nazionale Repubblicana e della X Mas. Ed è, più o meno, ciò che effettivamente avvenne grazie all’opera di quel glorioso Reggimento formato da 407 finanzieri appena e 23 ufficiali, a fronte di una presenza in città di fascisti e di tedeschi armati di oltre 20.000 unità. Già la sera del 25 aprile 1945 un reparto di finanzieri occupò la redazione del quotidiano del Partito fascista, Il popolo d’Italia. Nella notte, uscito dalla caserma “5 Giornate” con quel piccolo Reggimento, dopo brevi scontri a fuoco con la X Mas e reparti delle Brigate nere, con una fulminea operazione Malgeri occupò la Prefettura, il Palazzo della Provincia, il Municipio e la stazione radio dell’Eiar. La mattina seguente fu lui ad annunciare la ritrovata libertà del capoluogo lombardo, facendo suonare per tre minuti consecutivi, così come convenuto con il CLN, le sirene dell’allarme antiaereo. Spiegherà anni dopo il figlio Vincenzo: «Mio padre era un militare. Eseguiva gli ordini. Ma in questo caso, pur conoscendo i rischi, decise di schierarsi contro i nazifascisti. Non gli erano mai piaciuti». Il reggimento di Malgeri, il 6 maggio fuo passato in rassegna dal generale Willis D. Crittenberger, comandante del IV corpo d’armata statunitense, che era giunto a Milano il 30 aprile.
Comandante interinale della prima zona Guardia di Finanza di Milano, nel dicembre 1947, Malgeri fu promosso Generale di Brigata e confermato nel comando che reggeva fin dalla Liberazione.
Nominato Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel 1968, nel 2007 gli è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valore della Guardia di Finanza “alla memoria” (a ritirare il riconoscimento è stato il figlio Vincenzo). Questa la motivazione: «In difficilissima situazione politico militare, quale comandante di legione in zona di altissimo valore strategico, si opponeva con decisione e con grave rischio personale agli intendimenti del governo fascista repubblicano di utilizzare la Guardia di Finanza contro l’espatrio clandestino di ebrei e perseguitati ed in operazioni antiguerriglia contro la resistenza. Collegatosi segretamente con il comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, poneva il suo comando al centro dell’attività cospirativa contro i nazifascisti, fornendo ai patrioti armi, munizioni e documenti falsi. Il 25 aprile 1945, alla testa di un reggimento di formazione composto esclusivamente da finanzieri, occupava i gangli vitali ed i principali uffici pubblici di Milano, scacciandone gli occupanti. Alle ore 8,00 del successivo 26 aprile aveva l’alto privilegio di annunciare, con il suono delle sirene, l’avvenuta liberazione del capoluogo e delle principali città lombarde. Fulgido esempio di onore militare e di cosciente dedizione al Corpo ed alla Patria. Milano, 8 settembre 1943 – 26 aprile 1945» (31-10-2007 postuma).
Grazie a lui le Fiamme Gialle non si trasformarono in “aguzzini”, come invece ha fatto gran parte dei militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) con la quale fu soppiantata nel Nord Italia l’Arma dei Carabinieri nella Repubblica Sociale Italiana.
Uomo della Resistenza e mancato “Giusto tra i Giusti”, come avrebbe meritato per quanto ha fatto per ebrei e perseguitati. si spense a Milano nel 1977 all’età di 85 anni.
Tumulato nel Cimitero Monumentale, le sue ceneri sono state trasferite nella Cripta del Famedio (un particolare onore ai “Cittadini benemeriti” a cui era stato iscritto nel 2002).
La città di adozione che nel 1971 gli aveva già conferito l’Ambrogino d’Oro, nel 2018 ha dato il suo nome a un giardino in via Monte Grappa angolo via Melchiorre Gioia, in omaggio a quanto egli aveva fatto per il capoluogo lombardo, difendendo la popolazione dalle prepotenze nazi-fasciste, spesso manifestate attraverso rastrellamenti, razionamenti senza motivo e angherie di ogni sorta.
La sezione di Milano dell’Associazione Nazionale Partigiani porta il suo nome, così come la sezione dell’Associazione dei finanzieri (Anfi) a Marcianise, paese della moglie. Una targa in Prefettura a Milano ricorda le sue gesta. In diverse località d’Italia (tranne che in Calabria) a Malgeri sono state intitolate caserme, vie e piazze. (Gerardo Severino) © ICSAIC 2023 – 03  

Opere

  • L’Occupazione di Milano e la Liberazione, presentazione di Ferruccio Parri, Editori Associati, Milano 1947 (poi ristampato: Comune di Milano, Milano 1983, Comune di Milano Raccolte storiche 2005).

Nota bibliografica essenziale

  • Senza titolo, «Corriere d’informazione», 6-7 dicembre 1947, p. 2;
  • Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Mondadori, Milano 1968;
  • Luigi Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), Franco Angeli, Milano 1988;
  • Salvatore Delli Paoli, Nord e Sud uniti nella Resistenza. Milano e Marcianise unite nel segno del generale Malgeri: un eroe italiano, in «Il Mattino», 13 settembre 2014, p. 20;
  • Luigi Borgomaneri, MilanoL’insurrezione e la liberazione della città, Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino 2000;
  • Luciano Luciani e Gerardo Severino, Gli aiuti ai profughi ebrei e ai perseguitati: il ruolo della Guardia di Finanza, 1943-1945, Museo storico della Guardia di Finanza, Roma 2005;
  • Marco Patricelli, Il nemico in casa. Storia dell’Italia occupata 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2016, ad nomen;
  • Marco Cuzzi, I seicento giorni di terrore a Milano. Vita quotidiana ai tempi di Salò, Neri Pozza, Milano 2022, ad nomen;
  • Mimmo Franzinelli, Marcello Flores, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2022, ad nomen;
  • Gerardo Severino, Alfredo Malgeri. Un “Giusto” da ricordare, in «Calabria.Live», 3 febbraio 2023, pp. 34-36.

Ringraziamenti

  • A Santo Strati, direttore di «Calabria.Live», per la preziosa collaborazione.