La Calabria reggina tra l’immobilismo borbonico e la miopia sabauda: Palma recensisce il volume di Arichetta

Pubblichiamo la recensione del presidente dell’ICSAIC Paolo Palma al volume di Fabio Arichetta La Calabria Ulteriore Prima. Fra moti risorgimentali e insorgenze legittimiste, pubblicata anche su «Il Quotidiano del Sud ».

La Calabria reggina tra l’immobilismo borbonico e la miopia sabauda

di Paolo Palma

La Calabria Ulteriore Prima fu l’estrema provincia continentale del Regno delle Due Sicilie, con capoluogo Reggio, nata nel 1816 dalla suddivisione dell’antica Calabria Ultra, con cui venne contemporaneamente istituita la Calabria Ulteriore Seconda, capoluogo Catanzaro. Di questo lembo di terra calabra un piccolo ma sostanzioso libro racconta sprazzi di storia risorgimentale che mettono a fuoco alcuni temi generali di grande attualità  storiografica relativi al rapporto tra il nuovo Stato e la Chiesa cattolica, alla repressione del brigantaggio filoborbonico e all’annosa questione dello sviluppo economico del Mezzogiorno al momento dell’Unità  d’Italia. Tre filoni da cui emergono, per grandi linee, sia l’immobilismo e l’ottusità  borbonici, sia la miopia sabauda nei confronti, ad esempio, del mondo cattolico o dei soldati e sottufficiali del disciolto esercito duosiciliano che, trascurati dai nuovi governanti, andarono a ingrossare le bande brigantesche.

Ha fatto bene perciò l’autore, Fabio Arichetta, “topo d’archivi” e collaboratore assiduo del Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea dell’ICSAIC, diretto da Pantaleone Sergi, a raccogliere i suoi saggi sull’argomento (La Calabria Ulteriore Prima. Fra moti risorgimentali e insorgenze legittimiste, Città  del Sole Edizioni) dai quali si ricava anche che il Risorgimento reggino non fu dovuto soltanto all’iniziativa di una ristretta cerchia di patrioti, ma pervase diverse classi sociali e lo stesso clero, che ne fu spaccato.
Arichetta è particolarmente attento alle questioni ecclesiali; e quindi alla folta schiera, pur minoritaria, di sacerdoti calabresi che, come il canonico reggino Paolo Pellicano, contribuirono da protagonisti alla nascita dello Stato liberale, per cui nulla la Calabria ha da invidiare ad altre regioni italiane in tema di istanze cattolico-liberali. Ma dalle sue pagine emerge anche con chiarezza la frattura sempre più profonda tra il nuovo Stato e la Chiesa; e l’adozione, da parte delle autorità  garibaldine e poi sabaude, della linea dura nei confronti del clero filoborbonico, culminata in arresti, rappresaglie, fucilazioni, come quella dei frati minori del convento del Crocefisso di Bianco, o nell’espulsione di sacerdoti e persino in quella, manu militari, dell’arcivescovo di Reggio Calabria, Mariano Ricciardi, che era entrato in conflitto con il governatore Antonino Plutino, nominato da Garibaldi.
Eppure i cattolici liberali reggini, raccolti attorno al giornale “La Fata Morgana”, diretto dal canonico Pellicano, avevano partecipato alla insurrezione del 2 settembre 1947 all’insegna del motto “viva Pio IX”, tenendo tra le mani, come il canonico Calabrò, a sinistra il crocefisso e a destra la pistola; e inneggiando a Ferdinando II “Re Costituzionale”, del quale gl’insorti ribadivano “la sacra inviolabilità  della persona” auspicando al contempo l’allontanamento dal sovrano dei “pochi maligni intriganti” che lo distoglievano dal fare il bene del popolo delle Due Sicilie. Ma l’Esercito e la Marina soffocarono il moto nel sangue, prova lampante della incapacità  della monarchia borbonica di cogliere persino le posizioni di moderato progressismo borghese rappresentate da quello che Arichetta definisce “l’ultimo ruggito neoguelfo”.
Persino dalla vicenda del generale catalano José Borjes (o più correttamente Borges), la cui morte per fucilazione senza processo, come brigante, rappresenta una macchia per il nuovo Stato italiano, risaltano il pressappochismo, l’ambiguità  e il cinismo dei notabili borbonici. Borges fu infatti ingannato dagli emissari di Francesco II circa le forze e gli armamenti che avrebbe avuto a disposizione per sollevare il popolo contro i piemontesi e fu messo in contatto con bande di delinquenti capeggiate in Calabria dal brigante Mittiga e in Lucania dal brigante Crocco, con i quali quel povero reazionario idealista, “romantico allo sbaraglio”, entrò inevitabilmente in contrasto.
Breve, infine, l’ultimo saggio intitolato Alle origini del sottosviluppo della Calabria Ulteriore Prima; denso però di notizie interessanti su uno dei temi maggiormente dibattuti dalla storiografia, e di conferme circa l’arretratezza del Regno delle Due Sicilie. L’economia della Calabria Ulteriore Prima era infatti “a dir poco frenata nel suo reale potenziale a causa della totale assenza di strade di comunicazione e di infrastrutture”. Carenti anche le infrastrutture portuali calabresi considerando che sugli 800 chilometri di coste erano in funzione soltanto tre porti, Reggio, Tropea e Crotone, quest’ultimo peraltro sottoposto a periodici insabbiamenti. Una situazione davvero disastrosa se si pensa che la flotta mercantile borbonica era seconda, per tonnellaggio, soltanto a quella inglese; e dalla quale si può arguire un particolare disinteresse dei Borbone per il territorio della Calabria.
Per spiegare il grave deficit infrastrutturale del Mezzogiorno, l’Autore individua una polemica degli anni ’30 legata a una diversa concezione dell’intervento dello Stato nella economia del Regno. Da una parte l’ingegnere Carlo Afà n de Rivera, direttore del Corpo Ponti e Strade, teorico della modernizzazione infrastrutturale delle Due Sicilie, dall’altra il futuro presidente del Consiglio dei ministri di Ferdinando II, Giuseppe Ceva Grimaldi, che sul fronte opposto teorizzava l’immobilismo, il non intervento cioè dello Stato con la realizzazione di infrastrutture reputate inutili e, forse, fonte di pericolose novità , come suppone nella prefazione Antonino Romeo.

I numeri dell’immobilismo borbonico sono clamorosi: nel 1833 la Calabria Ulteriore Prima aveva 35,680 km di strade, diventati 75,558 nel 1864, con un incremento, quindi di 1,5 km l’anno in tre decenni. Pur con i noti limiti e contraddizioni – questa la corretta conclusione di Arichetta – è solo grazie all’Unità  d’Italia che prende il via lo sviluppo del sistema viario e infrastrutturale, propedeutico a qualunque sviluppo economico.
Che poi buona parte della ricchezza delle regioni meridionali dopo l’Unità  sia stata utilizzata a favore dell’economia delle regioni settentrionali è un altro discorso, che non invalida però la positività  del processo unitario e non consente di idealizzare l’immobile e decrepito Regno delle Due Sicilie, come fa invece la disinvolta storiografia neoborbonica seminando varie falsità  e manipolazioni. E soprattutto interpella il comportamento delle classi dirigenti del Mezzogiorno, a schiacciante preponderanza agraria, che favorirono in Parlamento le politiche liberistiche di Cavour in quanto proficue all’esportazione del loro olio, vino e frutta; a danno però degli industriali del Sud che invano protestarono e si opposero (pochi) in Parlamento, e videro le loro aziende travolte a causa della concorrenza delle più robuste industrie del Nord Italia ed europee.

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