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Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea

  A cura di Pantaleone Sergi

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Amarelli, Giuseppe

Giuseppe Amarelli [Rossano (Cosenza), 12 giugno 1904 – 17 gennaio 1990]

Nacque da Nicola, imprenditore, e da Alfonsina De Stefano, che ebbero altri due figli, Fortunato e Pasquale. La storia della famiglia Amarelli, annoverata tra le casate nobiliari, risale ai tempi delle Crociate (Alessandro andò in Terra Santa nel 1103), degli Aragonesi (Francesco fu combattente nella Battaglia di Otranto nel 1469). Nel Seicento Giovan Leonardo fu insigne giurista e Priore dell’Università di Messina, nell’Ottocento Vincenzo, legato a Luigi Settembrini, patriota e carbonaro, e agli inizi del Novecento Giuseppina, prima donna a gestire l’azienda di famiglia, che denotò spiccate capacità imprenditoriali e profonda conoscenza del diritto. L’azienda, già dal XVI secolo, lavorava la radice di liquirizia (“glycyrrhiza glabra”) nei vasti latifondi della famiglia, dove già nell’Ottocento si concentrava il 70% circa della produzione nazionale del succo, utilizzato nell’industria dolciaria, farmaceutica e nella concia dei tabacchi, venduta sia sul mercato nazionale che estero.

Giuseppe, trascorsa un’agiata infanzia a Rossano, compì studi tecnici con l’intenzione di iscriversi alla Facoltà di Ingegneria, ma nel 1924 venne a mancare il padre: dovette abbandonare gli studi e assieme ai fratelli Fortunato (il maggiore) e Pasquale si trovò a dover gestire l’attività. La fabbrica era stata oggetto di una prima ristrutturazione e meccanizzazione che già consentivano un migliore processo produttivo, ma si impose una riorganizzazione con divisione delle responsabilità: Fortunato si dedicò all’amministrazione, Pasquale alla commercializzazione, mentre Giuseppe assunse la direzione della Amarelli con l’obiettivo di pervenire a un reale e competitivo processo industriale espandendo il marchio attraverso gli uffici di rappresentanza aperti a Milano, a Torino e a Trieste (sede della Borsa Mercantile), stabilendo validi rapporti con gli importatori e intensificando le relazioni con rinomate ditte nazionali (Schiapparelli, Venchi & C. e Leone), alle quali forniva la materia semilavorata.

Negli ventennio fascista l’azienda produsse anche un surrogato, commercializzato con il marchio Lealmair, che permise il mantenimento dei pregressi ricavi in quel periodo di congiuntura economica. I “conci” (la fabbrica nella quale avveniva la trasformazione della radice in succo o in pasta) erano diffusi nell’area jonica calabrese e lucana e facevano capo alle famiglie dei grandi latifondi: gli stabilimenti insistevano nella vicina Corigliano Calabro, a Castrovillari, Altomonte, San Lorenzo del Vallo, Cassano all’Jonio, anche a Policoro, Scanzano e Bernalda, ma solo quello di Amarelli riuscì a sopravvivere alla crisi degli anni Trenta. Il lavoro era duro, ma già ben diverso da come lo descriveva Vincenzo Padula dalle colonne del bisettimanale “Il Bruzio” nel 1865: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, duc acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese».

Giuseppe, nel quadro dell’ampliamento e del perfezionamento del ciclo di produzione, nel 1931 impiantò gli estrusori meccanici per filare la pasta e in seguito installò nuove caldaie a vapore per ottenere migliore resa per l’estratto, innovazioni che apportarono l’atteso incremento della produzione, riuscendo nel dopoguerra a competere con imprese di maggiori dimensioni, come l’abruzzese Saila.

La storica dinastia degli Amarelli, nel frattempo, proseguiva: Giuseppe sposò il 5 giugno 1933 Eleonora Rapani, anch’essa discendente da nobile famiglia rossanese, e dalla loro unione nacquero i figli Nadia (1934-2015), Giorgio (1938-1986) e Francesco (1944), questi ultimi anch’essi impegnati nella conduzione dell’azienda. Durante gli anni Sessanta Giuseppe proseguì, coadiuvato dal figlio Giorgio, nella ristrutturazione e nell’aggiornamento tecnologico del processo produttivo e, richiamata la sua passione per l’ingegneria, progettò e brevettò un nuovo ed efficiente sistema di estrazione a vapore. Intorno alla metà degli anni settanta venne avviata l’automazione del processo produttivo (a schede perforate). Nel corso degli anni l’utilizzo della tecnologia aveva ridotto la manodopera in un processo faticoso, ma agli addetti non venne mai fatta mancare la dignità umana, anche in virtù dei principi cattolici ai quali Giuseppe e gli altri componenti della famiglia si ispiravano e che praticavano, riconvertendo gran parte del personale in altre mansioni interne ed esterne all’opificio. Dal 1980, in seguito alla morte del fratello Fortunato (l’altro, Pasquale, era scomparso nel 1967) l’azienda venne gestita sotto forma di ditta individuale. Il marchio Amarelli aveva assunto dimensioni e notorietà che davano lustro alla Calabria nel mondo: i prodotti, con un catalogo molto assortito e sempre orientato alla domanda, venivano esportati in Europa e oltre oceano, negli Stati Uniti, nel Canada e in Australia.

Dopo la scomparsa di Giorgio, nel 1986, venne dato impulso alla comunicazione attraverso mirate ed efficaci strategie commerciali da Francesco e dalla moglie di questi, Pina Mengano, appartenente a nota famiglia di Napoli, docente di diritto all’Università, che riprese l’interesse del suocero verso gli eventi culturali, divenendo nel tempo vera e propria ambasciatrice della Amarelli nel mondo e ricoprendo anche numerosi incarichi istituzionali nel mondo della finanza e della cultura. Nel 1987 il Consiglio Direttivo della Società Chimica Italiana deliberò, all’unanimità, il conferimento a Giuseppe Amarelli della Medaglia d’oro per l’Industria, della quale fu orgoglioso perché non lo riteneva un riconoscimento destinato solo a lui ma alla storia della sua famiglia e che era certo avrebbe costituito un ulteriore punto di riferimento per le generazioni successive alla guida dell’azienda familiare, al cui timone volle la nuora, per il graduale passaggio alle successive generazioni.

Il barone Giuseppe Amarelli, che a Rossano tutti chiamavano “don Geppino”, convinto che la reale nobiltà si manifestava con il lavoro, oltre a essere un imprenditore illuminato e convinto delle potenzialità delle attività produttive calabresi, ebbe anche un ruolo sociale di guida nella sua Rossano. Il 13 luglio 1949 il prefetto di Cosenza, Gaetano Marfisa, lo nominò presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale Civile “Giannettasio” e dal 7 settembre di quello stesso anno divenne Commissario Prefettizio dello stesso nosocomio, sino al 1967, allorquando venne nominato un nuovo Consiglio. Espletò il suo mandato con zelo e riconosciuto equilibrio per quasi 18 anni. Fu anche presente nella realtà culturale e nel 1985 venne nominato presidente onorario dell’Associazione “Roscianum”, carica mantenuta sino alla sua scomparsa.

Morì all’età di 86 anni non ancora compiuti e riposa nella cappella di famiglia del cimitero di Rossano. Nel primo anniversario della sua scomparsa la sua commemorazione venne tenuta da Mons. Francesco Milito. La città di Rossano (ora Corigliano Rossano) ha intitolato a lui una via nella frazione Scalo, mentre figurano nella toponomastica della città strade dedicate ad altri esponenti della famiglia.

Giuseppe è stato l’esponente più noto di una famiglia che ha creato una realtà produttiva tra le più longeve d’Italia caratterizzata dal mantenimento della tradizione coniugato all’innovazione, con una forte identità territoriale. Oggi “l’oro nero” della Calabria raccoglie consensi in tutto il mondo e incrementa l’export non solo della regione, registrando fatturati significativi e in costante crescita. Nel 2001 venne aperto il museo della liquirizia “Giorgio Amarelli”, intitolato al figlio scomparso, che custodisce gli strumenti utilizzati nel tempo per la lavorazione delle radici sin dal Settecento, che – per numero di visitatori – risulta essere il secondo in Italia dopo quello della Ferrari a Maranello (Mo), con il fondo archivistico che parte dal XV secolo per arrivare al XX e comprende i carteggi dell’attività della fabbrica a far tempo dal 1731, archivio che è stato annoverato nel 2012 tra quelli aventi notevole interesse storico e catalogato dal Ministero dei Beni Culturali. (Letterio Licordari) © ICSAIC 2023 -12

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Nota bibliografica

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  • Elio Fata, La liquirizia del barone da oltre due secoli, in «Agorà», Cosenza IV, 6, 1987, pp. 4-5;
  • La dolce industria. Conci e liquirizia in provincia di Cosenza dal XVIII al XX secolo, Il Serratore, Corigliano Calabro 1991;
  • Massimiliano Palumbo, I cinquecento anni di storia di Amarelli, in «La Provincia cosentina», 19 agosto 2004, p. 10;
  • Ennio De Simone e Vittoria Ferrandino, L’impresa familiare nel Mezzogiorno continentale tra passato e presente Un approccio interdisciplinare, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 185-190;
  • Emanuele Sacerdote, Aziende storiche operative e silenti. Cambiamento evoluzione strategia e rinascita, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 42-43;
  • Daniela Brignone, Amarelli, in «L’impresa italiana», Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 2014, pp. 658-660;
  • Grazia Lissi, Il coraggio di restare. Storie di imprenditori italiani che ancora scommettono sul nostro Paese, Longanesi, Milano 2015, pp. 166-175;
  • Pina Mengano Amarelli, Amarelli, una storia di innovazione dalle nobili radici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.

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